Colpito e affondato. Come nella battaglia navale la “tagliola” tesa al Senato da Lega e Fratelli d’Italia, ha centrato in pieno la “casella” ddl Zan: così Palazzo Madama ha approvato, a scrutinio segreto, con 154 voti favorevoli, 131 contrari e due astensioni, la proposta di non passaggio all’esame degli articoli del testo. Risultato: il disegno di legge, che reca misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per sesso, genere o disabilità, tornerà in commissione non prima di sei mesi. L’esito della votazione è stato accolto dal centrodestra con un applauso, mentre dal centrosinistra e dal Movimento 5 Stelle si sono levate voci di protesta e di delusione. Ci saranno ripercussioni sull’ampia maggioranza che regge il governo di unità nazionale? “Non credo – risponde Stefano Folli, editorialista di Repubblica –, perché i problemi gravi sono ben altri: Legge di bilancio, pensioni, gestione del Pnrr e partenza in salita della corsa al Quirinale”.
E proprio sulla prossima elezione del Capo dello Stato, per Folli “è auspicabile che Draghi resti a Palazzo Chigi, perché è la maggiore garanzia possibile a che il governo attui una politica efficiente. Non tenderei ad escludere un Mattarella-bis, anche se lui stesso non lo desidera, ma potrebbero esserci circostanze eccezionali che possono spingere in questa direzione, qualora si profili un’alternativa solo rissosa e distruttiva”.
L’affossamento del ddl Zan passerà via liscio senza lasciare strascichi fra i partiti e sul governo?
Il ddl Zan è stata una battaglia sui diritti e su cui si possono avere posizioni diverse, ma è una battaglia di bandiera, che non investe direttamente il rapporto politico fra i partiti di maggioranza. Ci sono state sì distinzioni, ha lasciato pure qualche ferita, ma chi mette in pericolo il governo perché non è passato il ddl Zan? Credo nessuno.
Al centrosinistra mancano all’appello 16 voti e due astenuti. Letta per mesi ha insistito sul tema dei diritti come questione irrinunciabile per il Pd. E’ lui il grande sconfitto?
Letta sapeva benissimo che le possibilità di perdere erano altissime, specie in caso di votazione a scrutinio segreto. Lo sapevo da dopo quello che era successo prima dell’estate, quando ormai la situazione era piuttosto chiara, cioè che se non si fosse trovato un minimo di accordo si sarebbe andati inevitabilmente al muro contro muro, che era una sorta di campana a morto. Letta ha voluto andare lo stesso.
Perché?
Per ragioni politiche: ha preferito perdere questa battaglia, avendo però una bandiera da sventolare contro il centrodestra e contro forse le posizioni più sfumate presenti all’interno della sua maggioranza. Si fosse andati avanti sulla trattativa, probabilmente sarebbe stata un’operazione politica più faticosa per il Partito democratico e magari non avrebbe portato ugualmente alcun risultato. Letta aveva messo nel conto la possibilità di perdere, era una scelta consapevole. Giusta o sbagliata, lo vedremo più avanti.
La vittoria sul fronte ddl Zan ringalluzzisce un centrodestra che sembrava alle corde?
Non credo che le identità politiche si definiscano sollevando o negando una bandiera. Certo, ieri è stata una giornata in cui possono dire di aver vinto una battaglia parlamentare, ma i problemi politici del centrodestra restano e sono gravi.
Oggi il governo sarà impegnato in un Cdm sulla legge di bilancio. Passaggio delicato e insidioso per Draghi?
Sulla Legge di bilancio e sulla riforma delle pensioni le tensioni sono più forti e più serie. Nessuno però tirerà la corda fino a spezzarla, né Draghi piegherà la testa di fronte alle pressioni dei partiti. Certo è che la lunga fase della luna di miele con i partiti che finora lo hanno sostenuto con ossequioso atteggiamento sia finita. Le pressioni aumentano e ancor di più cresceranno l’anno prossimo, a mano a mano che ci avvicineremo alla fine della legislatura e alle elezioni politiche, si tenessero queste sia in anticipo sia alla loro naturale scadenza. Legge di bilancio e riforma delle pensioni segnano il primo atto di una nuova fase più critica.
Possono trasformarsi in tensioni distruttive?
E’ difficile dirlo adesso, lo sapremo meglio dopo le elezioni del capo dello Stato a gennaio 2022.
Anche la rottura Draghi-sindacati su manovra e pensioni può essere foriera di problemi e tensioni in un momento già complesso dal punto di vista sociale per le vicende legate a pandemia e green pass?
Potrebbe. Ma qui sta al senso di responsabilità dei sindacati e delle forze politiche, sia di sinistra che di destra evitare che questo accada. E’ un tema di cruciale importanza, ma sarebbe del tutto irresponsabile soffiare sul fuoco.
La corsa al Quirinale, secondo lei, è iniziata con il piede sbagliato. Perché?
Perché, da una parte, la candidatura di Berlusconi, abbastanza improbabile, e dall’altra un primo abboccamento tra Letta e Conte con i Cinquestelle che boicottano un’ipotetica candidatura di Gentiloni, non possiamo pensare di trasformare la ricerca di una maggioranza per il nuovo presidente della Repubblica in una prosecuzione della campagna elettorale. Non ha niente a che vedere con la scelta di un capo dello Stato che deve esprimere un’unità nazionale.
Andrà avanti ancora peggio?
Il rischio c’è. Abbiamo dei partiti che non sono nemmeno lontani parenti dei partiti di 30-40 anni fa, che avevano radici più solide nella società e gestivano un sistema politico più solido.
Se tutto questo non c’è più, cosa teme?
In una situazione economica estremamente fragile, perché dobbiamo consolidare la ripresa e gestire il Pnrr, e in un contesto sociale in fibrillazione, il quadro ha pochi precedenti. Meno male che abbiamo a Palazzo Chigi un uomo di prestigio, anche agli occhi dell’Europa e dei mercati finanziari, come Draghi, che ha comunque una maggioranza difficile da gestire. Compromettere tutto per trasformare la corsa al Colle in una specie di duello di tutti contro tutti sarebbe gravissimo. Può darsi che non si arrivi a un grande accordo, ma è doveroso cercarlo, come si è fatto con Ciampi. La corsa al Quirinale non può essere una rissa, il paese non si può permettere troppe elezioni a vuoto e un braccio di ferro sarebbe molto pericoloso.
Molti osservatori parlano di un Draghi insofferente perché il Recovery plan procede troppo a rilento. Sente il fiato sul collo dell’Europa, che potrebbe riaccendere i riflettori su di noi?
E’ vero, ci sono difficoltà enormi sul fronte interno e Draghi è insofferente, però l’Ue sa benissimo che lui è l’unica garanzia che noi oggi possiamo dare all’Europa rispetto al corretto utilizzo dei fondi del Recovery. Non c’è un altro scenario favorevole. L’Italia non può sbagliare cammino nel 2022, perché potremmo pagarne delle pesanti conseguenze.
(Marco Biscella)
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