La Corte costituzionale lo scorso 14 novembre con un “dispaccio” del suo Ufficio Comunicazione e Stampa ha fatto sapere gli esiti del giudizio sulla legge concernente l’autonomia regionale differenziata, esponendo una sintesi della motivazione, che si potrà leggere e valutare quando la sentenza verrà depositata.
Sarebbe quindi opportuno che i commenti sul merito della decisione intervenissero dopo quel momento: e invece, già qualche ora dopo la pubblicazione del comunicato e ancor di più il giorno successivo, sono apparse diverse “annotazioni” di giuristi, in gran parte con toni trionfali. Giustizia sarebbe stata fatta perché sarebbe stato sventato il pericolo di un attentato all’unità della Repubblica.
Per la verità, oltre alla notizia che la Corte ha respinto la questione di costituzionalità che mirava a travolgere l’intera legge, per il resto il compendio delle motivazioni è tutt’altro che di immediata e in sé compiuta evidenza: si risolve nell’elenco delle “direttive” – frutto di un’interpretazione “costituzionalmente orientata” – indirizzate al legislatore chiamato a “colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle Regioni ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge”.
Sembra, dunque, che i rilievi più urgenti debbano riguardare innanzitutto il comunicato in sé considerato.
Uno strumento, questo, che il Giudice delle leggi tende – non da oggi – ad utilizzare mirando ad un triplice effetto: coltivare un rapporto mediatico diretto con la pubblica opinione e pertanto con il popolo che la esprime, per acquisire una qualche forma surrogatoria di legittimazione politica, inserendosi nel circuito rappresentativo in funzione contro-maggioritaria; segnalare alla collettività statale che il suo massimo organo rappresentativo – il Parlamento – nell’esercizio della funzione legislativa, ha dettato disposizioni in contrasto con la Costituzione o da essa difformi, e che per porre rimedio a tali violazioni o difformità commissive od omissive deve attenersi alle direttive impartite dalla Corte.
Ci si dovrebbe chiedere se questo modo di procedere corrisponda davvero alla funzione di garanzia – l’unica – che spetta alla Consulta e che, per quanto la si voglia declinare in modo ampio, non può sconfinare nell’area della discrezionalità politica.
In realtà, il confine è stato da tempo oltrepassato e la Corte ha assunto e teorizzato un suo ruolo tutoriale e sostitutivo del Parlamento, in funzione di colegislatore, che, facendo leva sulla forma e sugli effetti giurisdizionali delle sue pronunce, finisce per assicurare prevalenza alla sua volontà normativa anche quando espressa mediante “moniti”, direttive ed indirizzi (che possono o meno essere accompagnati dalla prefigurazione di sanzioni in caso di “inosservanza” da parte delle Camere).
I rilievi e gli indirizzi della Corte, quali quelli riferiti nel comunicato in questione, appartengono piuttosto alla prerogativa del Presidente della Repubblica di esporre alle Camere con messaggio motivato il rifiuto di promulgazione delle leggi, che presenta tratti di doverosità allorché vi siano dubbi di illegittimità o anche solo di inopportunità costituzionale. Laddove però quel rifiuto può essere superato dal Parlamento che riapprovi, assumendo per intero la responsabilità dell’atto eventualmente viziato, lo stesso testo (tranne casi estremi), così non avviene quando è la Corte a tracciare le linee da seguire perché la legge sia (si badi) non semplicemente “non contraria”, bensì conforme – che è altra cosa – alla Costituzione.
Per altro verso, però, il nodo dell’autonomia differenziata mette capo alla irresoluta volontà del legislatore costituzionale del 2001, che, come tutti sanno, era guidato da una maggioranza di centrosinistra. L’art. 116, co. 3, Cost. non brilla certo per chiarezza, nonostante l’importanza dell’istituto che introduce, che andrebbe letto in relazione inscindibile con il principio fondamentale dell’art. 5 Cost. Segno forse del fatto che aveva ragione chi allora sollevò dubbi sulla sincerità dell’autonomismo nel cui nome pure era stata approvata la riforma del 2001 e ipotizzò che il disegno celasse (anche per mezzo di un dettato a dir poco incerto e confuso) una riserva mentale e la volontà di deformare, e in definitiva far arretrare, le garanzie di autonomia regionale, viceversa ben ordinate nell’originario impianto della Carta.
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