La Corte costituzionale federale ha ingiunto al presidente della Repubblica federale tedesca di non firmare la legge con cui il Parlamento approva il Recovery Fund fino a quando la Corte stessa non decida della sua costituzionalità. Il problema troverà probabilmente una soluzione nelle prossime settimane con una limatura del testo ed il Recovery Fund passerà e non subirà nemmeno un ritardo molto grande. Il fatto però non deve essere preso sottogamba. Se la Corte costituzionale federale agisce in questo modo lo fa per lanciare un grido di allarme e per richiamare la classe politica (europea, non solo tedesca) alle sue responsabilità.



Naturalmente i populisti tedeschi cercheranno di trarre vantaggio dalla situazione dicendo che la Corte costituzionale federale si oppone ad una Unione dei trasferimenti, cioè ad un’Unione Europea in cui l’Italia fa i debiti e la Germania li paga. Ma… è veramente così? È anti-europea la Corte costituzionale tedesca?



In realtà i giudici pongono sul tappeto una questione oggettiva che è la stessa sulla quale si è fatta a suo tempo la Rivoluzione americana. È il problema della sovranità fiscale dello Stato: no taxation without representation. Si possono imporre tasse ai cittadini solo con il voto di un Parlamento in cui i cittadini sono rappresentati. Un’assunzione di debito, dice la Corte, equivale ad una tassazione. Assumendo in modo solidale con gli altri Stati dell’Unione la responsabilità di un debito comune europeo (questo è in realtà il modo in cui si finanzia il Recovery Fund), il Parlamento tedesco assume l’impegno a pagare la quota di debito degli altri paesi aderenti nel caso in cui essi non facciano fronte ai loro impegni. In altre parole il Parlamento aliena la sovranità fiscale dello Stato assumendo un impegno eventuale che dipende dalle decisioni di altri paesi e di altri Parlamenti. Questo è incostituzionale.



L’obiezione era stata avanzata già precedentemente ed in altre forme. Uno Stato che produce un deficit eccessivo e condivide la moneta con altri Stati genera inflazione. L’inflazione è però una tassa che è pagata dai contribuenti di tutti gli Stati che partecipano alla moneta unica, mentre il ricavo va a vantaggio solo dello Stato che ha prodotto il deficit eccessivo.

I Trattati, inoltre, prevedono che la Banca centrale europea non possa finanziare i deficit dei singoli Stati partecipando alle loro aste del debito pubblico. Draghi ha aggirato l’ostacolo acquistando quei titoli sul mercato secondario oppure accettandoli come garanzia di prestiti a tassi di interessi simbolici fatti alle banche. In questo momento la Bce detiene circa il 16% del debito pubblico italiano che è parcheggiato presso la Banca d’Italia. Lo Stato italiano paga su quel debito gli interessi. La Banca d’Italia li restituisce come tasse ed utili di esercizio. Si tratta quindi di un prestito senza interessi. Benché infatti teoricamente la Banca d’Italia non sia di proprietà pubblica, il 90% degli utili vanno allo Stato. La Bce, dicono i critici, ha aggirato le prescrizioni dei Trattati ed ha trasformato l’Unione Europea in una Unione di trasferimenti nella quale si realizza uno spostamento di risorse non regolamentato da alcuni paesi ad altri. Diciamo “non regolamentato” perché esiste un sistema di trasferimenti previsto dai Trattati che è quello a favore delle regioni in ritardo di sviluppo.

Bisogna qui distinguere chiaramente fra la posizione della Corte e quella dei populisti. I populisti non vogliono i trasferimenti. La Corte non vuole trasferimenti non legittimati dal voto popolare.

Non entriamo adesso in questa complessa questione giuridica. Ci poniamo invece un’altra domanda. Perché Mario Draghi ha escogitato questa complessa architettura che si colloca al margine dei Trattati? E perché la cancelliera Merkel lo ha sostanzialmente appoggiato? I romani direbbero in questo caso: salus rei publicae suprema lex esto (la legge suprema è la salvezza dello Stato). Se non avesse fatto così, l’Italia avrebbe fatto fallimento e l’Europa sarebbe stata scossa da una crisi catastrofica che avrebbe portato miseria e sofferenze anche a tutti i suoi partner europei. Siamo legati gli uni agli altri in un modo così stretto che la rovina di uno porta con se la rovina degli altri. In condizioni di emergenza il giudizio politico deve prevalere sulla mera considerazione giuridica. Ciò non toglie che la situazione attuale sia abnorme ed alla lunga insostenibile. La decisione sul se finanziare il debito pubblico degli Stati è nelle mani di un potere che non ha una diretta legittimazione democratica. Per di più la politica economica ha bisogno di una Banca centrale e di un ministro del Tesoro, proprio come una macchina ha bisogno del freno e dell’acceleratore.

Come si esce da questa situazione? Siamo in mezzo a un guado. Indietro non possiamo andare. Forse bisognerebbe avere il coraggio di andare avanti: abbiamo bisogno di completare il progetto dell’Unione Europea che i Trattati di Lisbona hanno congelato. Abbiamo bisogno di un Parlamento europeo che controlli un Bilancio europeo, abbiamo bisogno di un Governo europeo e di un ministro del Tesoro europeo che abbia titolo per controllare effettivamente i bilanci degli Stati per garantire i più parsimoniosi contro il pericolo di spese spropositate da parte di quelli più irresponsabili, ma anche per dare agli Stati in difficoltà un aiuto limpidamente sottoposto all’approvazione di un Parlamento europeo pienamente legittimato.

L’elettore tedesco, allora, alla pari degli elettori degli altri paesi dell’Unione, perderebbe una parte dei suoi diritti a favore di se stesso in quanto elettore europeo. Abbiamo bisogno di un’Europa politica. Sono perfettamente consapevole di quanto sia difficile aprire il tema della riforma dei Trattati, ma per garantire la pace e la prosperità futura dei nostri popoli dobbiamo affrontarlo. Anzi, per dirla tutta, non abbiamo bisogno di una nuova versione migliorata dei Trattati. Abbiamo bisogno di una Costituzione europea.

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