Resipiscenza. È intorno a questa parola che si muovono i fili sottilissimi della valutazione del giudice che può portare alla scarcerazione di un indagato, anche in presenza di un quadro di elementi che per investigatori e pm sarebbero pesantissimi. Se ne parla molto in queste ore dopo la vicenda dei sette ragazzi accusati dello stupro di gruppo di Palermo ai danni di una 19enne, una terribile violenza che si sarebbe consumata la notte tra il 6 e il 7 luglio scorsi e che ha visto finire in cella giovanissimi tra i 18 e i 22 anni.



Uno di loro, minorenne all’epoca dei fatti, sarebbe stato scarcerato su disposizione del gip proprio per aver mostrato “segnali di resipiscenza” in costanza di confessione. Per questo, ricostruisce Ansa, sarebbe stato destinato a una comunità mentre l’inchiesta prosegue a ritmo serrato per chiarire ruoli e responsabilità dei soggetti finiti sotto indagine. La posizione del più giovane degli indagati nel caso dello stupro di Palermo, stando alla ricostruzione emersa dalle agenzie, sarebbe stata ritenuta diversa dal giudice per una manifesta consapevolezza del proprio errore e un ravvedimento, motivo che avrebbe indirizzato al provvedimento di revoca della custodia cautelare in carcere. Una decisione che avrebbe innescato la reazione della Procura per i Minorenni del capoluogo siciliano attraverso un ricorso.



Resipiscenza e scarcerazione, la decisione del gip sul minorenne coinvolto nel caso dello stupro di Palermo

Il termine resipiscenza lo si trova spesso negli atti di inchiesta e nelle sentenze e riguarda strettamente il rapporto tra indagato/imputato/condannato e reato. Più precisamente si riferisce al percorso di revisione critica del proprio operato che, a seconda di quanto sia profondo e concreto, può portare a una efficacia esimente o attenuante in termini di pena. Di resipiscenza si parla nelle recenti cronache a seguito della polemica sulla scarcerazione del minorenne del gruppo di giovani accusati di aver violentato una 19enne a Palermo tra il 6 e il 7 luglio scorsi, come riporta Il Messaggero secondo cui il gip avrebbe deciso di disporne il trasferimento in comunità alla luce di margini rieducativi che sarebbero emersi in sede di interrogatorio: “È incensurato e ha rappresentato una versione dei fatti dalla quale, comunque, emerge un principio di resipiscenza e di rivisitazione critica“.



Di resipiscenza, ravvedimento, pentimento, rivisitazione critica quali elementi concorrenti ad una eventuale valutazione di scarcerazione e concessione di misure come gli arresti domiciliari si sente parlare spesso anche in vicende riguardanti la posizione di boss come Giovanni Brusca, l’uomo della strage di Capaci e dell’atroce omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo tornato libero dopo 25 anni e per il quale, nel 2019, la Cassazione disse no alla scarcerazione citando proprio, ricorda Huffington Post, l’assenza di un compiuto ravvedimento nonostante “indubbie manifestazioni di resipiscenza“.