All’interno del “romanzo giallo” delle privatizzazioni, c’è un altro “romanzo” dalle tinte fosche, quello delle telecomunicazioni, o per dirla più prosaicamente dei telefoni. È talmente complesso e intricato questo capitolo del processo italiano di privatizzazioni, che neppure John Le Carré, il più grande scrittore contemporaneo di intrighi internazionali, riuscirebbe a dipanarlo, in tutti i suoi colpi di scena e rivoli oscuri, e ad ambientarlo con la sua eleganza da cachemire inglese.



Proveremo quindi a seguire una traccia, come al solito, che esce dalla cronaca di quei giorni degli anni Novanta, e poi proveremo, in conclusione, a fare una stima di chi ha veramente guadagnato sulla privatizzazione delle telecomunicazioni italiane, in termini di volgari quattrini, ma anche di funzionalità, per una grande azienda che doveva affrontare quella che uno studioso di media, Peppino Ortoleva, definiva la quarta rivoluzione dei mezzi di comunicazione e che probabilmente, oggi, la definirebbe come la quinta se non la sesta per i vertiginosi cambiamenti della tecnologia.



Quando si affrontò la privatizzazione, in plancia all’Iri era ritornato Romano Prodi, un “patito dei telefoni”, e quando si entrò nella fase di attuazione, Prodi era già salito alla presidenza del Consiglio, da via Veneto a Palazzo Chigi. Il gioviale professore bolognese ebbe una visione immaginifica, quasi dannunziana, e definì quell’operazione “la madre di tutte le privatizzazioni”, parafrasando più che un verso del Vate, una velleitaria dichiarazione del dittatore iracheno Saddam Hussein nella prima guerra del Golfo. Mentre la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti devastava con le bombe Bagdad, Hussein continuava ad aspettare americani, inglesi e persino la mitica Legione Francese nel deserto. Finì come tutti sappiamo quella guerra e anche quella successiva, più di dieci anni dopo.



Fortunatamente per tutti, Prodi non finirà come Saddam, ma certo la parafrasi si era rivelata davvero infelice. E anche sfortunata. Perché l’ascesa e la caduta di Prodi al governo, in ben due occasioni, ebbe come parziale sfondo anche “l’affare Telecom”. Così avvenne nel 1998, così nell’autunno del 2006, con Prodi ritornato da poco a Palazzo Chigi e subito inciampato nel “caso di Angelo Rovati”.

L’operazione di privatizzazione era stata preparata all’Iri fin dal 1984, ma solo il 3 marzo 1989 il consiglio dei ministri approvò lo schema di disegno di legge relativo alla riforma delle telecomunicazioni italiane: il repubblicano Oscar Mammì aveva seguito il progetto dell’Iri. La situazione all’interno del settore delle telecomunicazioni, prima di quello che fu definito un riassetto, era costituita da aziende autonome tra loro che smistavano telefonate urbane, interurbane, intercontinentali.

Ad esempio, la Sip non era la sola a posare un cavo. L’Azienda di Stato per i servizi telefonici faceva lo stesso e tutto questo comportava doppio lavoro e doppie spese. Fino a quando il Parlamento con la legge 58/92 consentì che l’Azienda di Stato per i servizi telefonici (ASST) venisse incorporata dalla Stet. Nata prima della holding Stet e dopo la Sip, per precisione nel 1925, la ASST operava nell’ambito del ministero delle Poste e gestiva la rete interurbana che si era rivelata un ricchissimo business. Nel 1991 aveva nella sua cassaforte 5300 miliardi di lire.

 

Tradizionalmente, la ASST era legata alla Dc, alla sinistra di Ciriaco De Mita, e sindacalmente alla Cisl. È utile aggiungere che, anche nella fase di privatizzazione, ci si muove, sia al governo che nelle grandi aziende di Stato, recitando giaculatorie alla sera per scongiurare l’arrivo, il giorno dopo, di un avviso di garanzia o qualche cosa di peggio.

 

In definitiva, proprio perché così fruttuosa e interessante, la fusione delle aziende pubbliche che operavano nel settore delle telecomunicazioni, non era più rinviabile. Così il riassetto delle telecomunicazioni portò alla costituzione di un soggetto unico, Telecom Italia, controllata dalla holding Stet.

 

E qui che comincia il “romanzo” dei telefoni italiani. Perché appena si apre la strada della privatizzazione si scatena immediatamente una corsa tra le banche d’affari per ottenere l’incarico per la collocazione del titolo. Insomma, i mercati entrano quasi in fibrillazione alla sola idea della privatizzazione della Stet.

 

Ma allo stesso tempo, si assiste, nel “Paese che conta”, a una duplice filosofia economica e finanziaria, a uno scontro vero e proprio tra il presidente dell’Iri, Romano Prodi, e il “grande vecchio di Mediobanca, Enrico Cuccia. Si sa da tempo che tra i due personaggi non corre buon sangue e non c’è mai stato feeling. Ma questa volta lo scontro diventa pubblico, di dominio pubblico, per la comunità economica e finanziaria.

 

Alberto Statera, che in quel periodo scriveva per “La Stampa” riassume quel braccio di ferro un po’ troppo enfaticamente, sbilanciandosi a favore del professore: “E adesso abbiamo anche i leader dei due schieramenti ideologici: da una parte Romano Prodi, amabile cattolico bolognese, sensibile al fattore umano e alla solidarietà cristiana. Dall’altra Enrico Cuccia, antico organizzatore del capitalismo nazionale, laico, specie di principe delle tenebre, che lavora religiosamente da lustri, animato anche lui da nobili principi, a favore dei grandi gruppi capitalistici privati”.

 

E quindi, sempre secondo Statera, e soprattutto “La Stampa” della famiglia Agnelli, Prodi diventa l’alfiere della public company, dell’apertura massima al mercato e all’ingresso di nuovi protagonisti nel mercato azionario. Insomma il nuovo della cosiddetta “seconda repubblica”. Mentre Cuccia è l’inveterato difensore del vecchio capitalismo italiano, il troppo realista difensore del “bidone vuoto del capitalismo italiano”, come diceva Guido Carli, oppure, come diceva lo stesso Cuccia di se stesso, l’organizzatore delle “nozze fatte con i fichi secchi”, attraverso le sue “scatole cinesi” e la difesa di un “nocciole duro” di comando in una grande azienda.

Alberto Statera riesce con il suo articolo a offrire un’immagine abbastanza deformata della realtà, ma soprattutto svela, con questo passaggio menzionato, non solo lo scontro fra Prodi e Cuccia, ma anche lo stato dei rapporti tesi tra Mediobanca e la galassia Fiat dell’avvocato Agnelli. In realtà, Enrico Cuccia era il più grande tecnico italiano in materia finanziaria e conosceva bene i suoi “polli”. In più era dotato di grande realismo, come tutti i cattolici trapiantati a Milano e in Lombardia. Cuccia, forse più dell’amabile cattolico bolognese, non si perdeva mai la “prima Messa” del mattino alla Chiesa della Passione accanto a casa sua. Aveva solo una venatura giansenista marcata, con quel suo ricorrere continuo, sia nelle lettere private sia persino in quelle d’ufficio, alla Provvidenza.

 

Enrico Cuccia, che si avviava verso la novantina, era ormai convinto che la grande imprenditoria familiare italiana stava preferendo la “gestione dei servizi” piuttosto che la battaglia quotidiana dell’impresa di produzione manifatturiera. Sapeva della debolezza di quella imprenditoria di fronte alla concorrenza internazionale e per questa ragione, non avendo alternative, difendeva i “noccioli duri” con architetture finanziarie di ogni tipo pur non risparmiando, e non avendo mai risparmiato in passato, autentiche “scudisciate” a questi imprenditori che proteggeva con la sua abilità.

 

Nel 1978, in una delle sue più appassionate, ma sempre discrete e nitide, relazioni annuali a Mediobanca, aveva detto che forse sarebbe stato meglio avere gruppi più piccoli, ma meno indebitati e più dinamici. Poi, nel periodo cruciale della deindustrializzazione, aveva incaricato il capo Ufficio Studi di Mediobanca, il bravissimo Fulvio Coltorti, di andare a scoprire “come vivono gli italiani” e quindi lo aveva lanciato sulla mappa delle medie imprese. Che poi diventeranno le 4500 imprese del “quarto capitalismo”, la miglior anomalia italiana di questi tempi di globalizzazione.

 

Coltorti quando ricorda quel periodo, spiega: “Tutti parlano di Cuccia a sproposito. Semplicemente perché non lo conoscono”. C’è una cosa in più da ricordare per inquadrare il Cuccia di quel periodo: i suoi colloqui con Renzo Rosso, il creatore della “Diesel”; e uno dei suoi ultimi colloqui con l’avvocato Gianni Agnelli, quando, guardandolo negli occhi, gli consigliò freddamente: “Avvocato venda la Fiat e comperi azioni Mercedes”. C’è chi si ricorda un Agnelli, re del glamour patinato e del savoir faire, con un volto contratto e un arcobaleno di colori che si accendevano sulla nobile faccia.

 

A conti fatti, il “vecchio sacerdote” di via Filodrammatici (ora piazzetta Cuccia) pensava ancora alla costruzione di un “nocciolo duro” per Telecom, in termini realistici, e forse con nuovi protagonisti. Prodi invece sfarfalleggiava con la sua public company, tanto irrealistica in Italia, quanto le prediche sulla finanza etica dell’avvocato Guido Rossi.

 

Alla fine, sia Cuccia , sia Prodi uscirono sconfitti dalla vicenda Telecom, come tanti altri comprimari.. Ma Romano Prodi perse molto di più. Se la sinistra al governo si era posta il problema di far cambiare pelle al capitalismo italiano, per come è andata la vicenda Telecom si può dire che è stato fatto un autentico buco nell’acqua, che alla fine ha tolto credibilità alla svolta “purificatrice” della cosiddetta “seconda repubblica”.

Proprio su Telecom, come si vedrà, il centrosinistra e il velleitarismo di Romano Prodi dimostrò non di guidare il cambiamento, ma di andarvi a rimorchio in modo scomposto e improvvisato. Lo vedremo al più presto in dettaglio, ma al momento basta ricordare che dal 1996 al 2001, nella fase di preparazione e poi di attuazione della privatizzazione, Telecom Italia cambiò la guida dell’azienda ben sei volte.

 

Dal canto suo, Cuccia volle togliersi alcuni “sassolini nella scarpa” su quanto pensava del capitalismo italiano. Lasciò che circolassero i verbali di vecchie riunioni, che risalivano addirittura al maggio del 1933, proprio sulla questione telefonica italiana. E quei documenti sono diventati la premessa necessaria del “romanzo” della privatizzazione di Telecom.

 

In quei verbali c’è il gotha del capitalismo italiano dell’epoca: Giovanni Agnelli I, Alberto Pirelli, Vittorio Cini, Vittorio Valletta. A che cosa servivano quelle riunioni? Alberto Beneduce, fondatore dell’Iri, suocero di Cuccia, statistico ed economista, massone e socialista riformista che lavorò, per spirito di servizio e patriottismo, anche al servizio di Mussolini, voleva riprivatizzare i telefoni italiani. La missione dell’Iri era quella di risanare le aziende e poi di riprivatizzarle, anche in tempo di grande dirigismo economico. Beneduce sondò i “grandi industriali”, facendo loro comprendere che la telefonia sarebbe stato un grande affare su cui lavorare e investire per il futuro.

 

La risposta dei grandi imprenditori italiani fu disarmante. In pratica chiedevano allo Stato 700 milioni per costituire imprese che si occupassero di telefonia. Settecento milioni di lire negli anni Trenta, quando il direttore di una grande banca guadagnava 2.500 lire al mese e la canzonetta più in voga diceva: “Se potesi avere mille lire al mese…”. Parlando con il Presidente Emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, Enrico Cuccia commentava: “I fascisti erano fessi, ma Mussolini non era fesso”.

 

Cossiga rimase stupito da quel “fesso”, perché in genere l’insulto più grave e sanguinante di Cuccia era “pisquano”. In ogni caso affidiamoci a Cossiga per sapere come finì quella storia del 1933, ricordando comunque che Cossiga, anche nei suoi fedeli resoconti, incedeva sui due capisaldi della grande letteratura ottocentesca e del primo Novecento: l’epica e l’ironia.

 

Cossiga ricordava così il racconto che gli fece Cuccia: “Beneduce prese le sue carte e i verbali delle riunioni. Poi andò da Mussolini. Il Duce ascoltò pazientemente, poi si alzò dalla sua poltrona, contrasse la mascella, si mise le mani sui fianchi e si alzò un paio di volte sui tacchi delle scarpe. Poi scandì: da socialista rivoluzionario potevo pensare che i grandi imprenditori italiani fossero degli inetti irresponsabili oppure dei pescecani. Oggi, da presidente del Consiglio, posso dire che sono solo dei coglioni. Beneduce! Non gli dia un cazzo e li mandi a quel paese”. Fuori dalla stanza, giovani manager dell’epoca, come Domenico Menichella e Oscar Sinigaglia si fregavano le mani per il lavoro appassionante che potevano ancora fare sotto l’insegna dell’Iri.

 

Questa è stata, con toni forse più accorati, la premessa storica del rapporto tra imprenditori italiani e telefoni. Ed è anche la prefazione del “romanzo” dei telefoni. Ora vediamo di raccontarlo nel modo più comprensibile possibile.

 

(7- continua)