Erano splendide le cronache del Quattrocento e del Cinquecento, compilate da cronisti-storici o da cronisti-politici. Non c’erano solo le notizie in quelle cronache, ma anche sintetici giudizi di merito. Eccone un’indimenticabile scritta in volgare: “Mentre il turco stava già scalando le mura di Bisanzio, li bizantini discutevano se fusse o non fusse il caso di inviare ambasciatori presso li viniziani”. Adattata ai tempi nostri e in particolare all’affare della privatizzazione della telefonia italiana, si potrebbe parafrasare in questo modo: mentre si discute tra la public company di marca prodiana e il “nocciolo duro” di sigillo cucciano, gli altri cominciano a impazzire per fare affari, per assicurarsi ricche commesse nel momento della collocazione dei titoli, per riciclarsi come imprenditori dei servizi dopo essere appartenuti a una dinastia industriale manifatturiera.
Abbiamo già visto che quando viene definito il cosiddetto riassetto, le banche d’affari di tutto il mondo si scatenano e i mercati entrano in fibrillazione. Ma nel 1993 c’è già la Pirelli di Marco Tronchetti Provera che è in agguato. È proprio il genero di Leopoldo Pirelli, che, insieme a Pierre Suard, presidente di Alcatel, proporne a Romano Prodi (nel frattempo ritornato presidente dell’Iri) di rilevare una quota della Stet. Si dice che questo sia stato il primo tentativo e che, nella “rissa” tra Prodi e Cuccia, il “profumo” era quello di una combinazione sponsorizzata da Mediobanca. Prodi resta quasi indignato da quella proposta che definisce indecente. Quindi Marco Tronchetti Provera deve fare un giro più tortuoso e largo per arrivare anni dopo al comando di Telecom. Ma bisogna guardare bene al dopo riassetto e alla strada che porta alla Telecom Italia.
Per rispettare le date occorre dire che Telecom Italia nasce ufficialmente nel 1994 con la fusione di Italcable, Telespazio, Iritel e e Sirm nella Sip, presieduta da Ernesto Pascale. Pascale era presidente e amministratore e aveva tre direttori generali: Tomaso Tommasi di Vignano, Francesco Chirichigno e Vito Gamberale. A Tommasi andarono le attività internazionali e di business, a Chirichigno le attività per l’utenza residenziale, a Gamberale fu assegnata la responsabilità della rete. Poiché per i passaggi successivi (c’era di fatto ancora in piedi la Stet che sarà fusa con Telecom nel 1997) si doveva aspettare, a Ernesto Pascale andò la presidenza della Stet e quella di Telecom fu data a Umberto Silvestri. Insomma c’è una girandola di incarichi e di manager al vertice della “nuova” telefonia italiana, ma le speranze che il settore delle telecomunicazioni italiane decollasse, prima ancora della privatizzazione a cui si pensa, è concreto.
I manager sono tutti di scuola pubblica, ma di alto profilo. Lo dimostra la competenza di Ernesto Pascale, quella di Biagio Agnes e quella di Vito Gamberale. Quest’ultimo è un uomo cresciuto all’Eni e quando viene spostato ad amministratore delegato della telefonia cellulare, Tim (Telecom Italia Mobile) dà un’impressionante accelerata al settore. È nel 1995 che si conclude l’operazione di scissione del settore radiomobile e Gamberale inanella un successo dopo l’altro con una politica di espansione del cellulare di prim’ordine. A ben vedere le due uniche teste pensanti della telefonia in Italia, proprio in quegli anni del passaggio da pubblico al privato sono due: Pascale che vara il “piano Socrate” per cablare l’intera penisola con la fibra ottica e il lancio della telefonia mobile; il secondo è Vito Gamberale che con Tim costruisce addirittura la “gallina dalle uova d’oro” del gruppo Telecom Italia.
Forte dell’iniziale posizione monopolistica, la Tim non ha commesso l’errore di altri monopolisti o ex monopolisti europei – inglesi, tedeschi, francesi – che per conquistare la clientela hanno regalato i cellulari agli abbonati, sostituendoli a loro spese di modello in modello e caricandosi in tal modo di enormi costi a vantaggio della Nokia e di altre imprese produttrici. In più, evitando questo costi, Gamberale ha potuto lanciare tariffe non elevate. Insomma Gamberale fa diventare Tim una delle più importanti compagnie di telefonia mobile del mondo, tanto da essere pronto a lanciare un’opa sulla britannica Vodafone. Ma non sia mai detto! Non bisogna dimenticarsi che siamo sempre in periodo di Tangentopoli e Gamberale ha due difetti: è un manager pubblico e per di più è un socialista craxiano. Sarà l’alterna fortuna o l’ironia della sorte, in quell’Italia che pretende costumi severissimi, che Gamberale viene centrato da un mandato di cattura (che creerà grandi polemiche) dalla solerte Procura di Napoli e dovrà ripensare amaramente ai suoi successi. È quasi superfluo, non ha nemmeno importanza sottolineare, che, anche in quel clima di giustizialismo, Gamberale verrà poi assolto con formula piena del reato che gli era stato contestato.
Nel 1997, mentre è in corso la fusione di Stet e Telecom, il passo definitivo prima della privatizzazione, escono di scena, cioè sono messi alla porta Ernesto Pascale e Biagio Agnes e sostituti con Tomaso Tommasi di Vignano (vicinissimo a Prodi che nel frattempo è diventato primo ministro) e l’avvocato Guido Rossi. Era questo il nuovo che avanzava. In quel periodo, oltre a Prodi a Palazzo Chigi, c’è Antonio Maccanico al ministero delle Comunicazioni. Curioso il motivo del licenziamento di Agnes e Pascale: “L’interesse fu di togliere da quella posizione persone che erano considerate come boiardi di Stato, personaggi sospettati di essere intrinsecamente non molto disposti alla privatizzazione. Personalmente li consideravo manager di valore e non dubitavo delle loro qualità. Fu un’operazione soprattutto di immagine… si voleva dare un senso di grande cambiamento”.
Proprio un bel “cambiamento!”, si poterebbe aggiungere. Perché mentre nel 1997 il Tesoro mette sul mercato le azioni della Stet è già tramontato anche il sogno della public company, cioè quello di una Telecom nella salde mani di un grande management e dei piccoli azionisti. Gli sforzi di Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi, scambiati chissà perché per due “premi Nobel” dell’economia, di aprire al mercato ottennero risultati deludenti. Si ripiegò sul “nocciolino”, nemmeno sul “nocciolo duro” che predicava Enrico Cuccia. La cordata degli investitori sottoscrive in tutto il 6,6% pari a 3947 miliardi di lire. Il ministero del Tesoro aveva calcolato che il “nocciolo duro” non sarebbe potuto essere meno del 10-13% del capitale e meno che mai avrebbe toccato il 20% così come sarebbe stato augurabile. Insomma il Tesoro si affida anima e corpo al “nocciolino” invece di affidarsi per la formazione del “nocciolo duro” all’unica banca d’affari, Mediobanca, che avrebbe potuto cambiare le sorti e, in seguito, avrebbe potuto varare la privatizzazione dell’azienda di telecomunicazioni.
C’è qualche cosa in più. Si privilegia un uomo del management Fiat, che fa parte della cordata del “nocciolino”, Gianmario Rosignolo, che non sembra avare grandi dimestichezza neppure con il telefono di casa. Il risultato di questa mirabolante privatizzazione della Stet è che un azionista con il 0,6% passa al comando di Telecom Italia, dato che si passa nel giro di pochi mesi alla fusione tra Stet e Telecom. Ma andiamo avanti, in questa storia che dovrebbe essere lineare, e che invece diventa di un tortuoso che è impossibile decifrare. Rosignolo salta e viene messo un altro uomo Eni, Franco Bernabè, il quale si trova in una situazione abbastanza imbarazzante, perché cerca di districarsi tra il “nocciolino” e il “nocciolone”.
In più si profilano all’orizzonte altri scenari. Bernabè pensa a un accordo con Deutsche Telecom, ma c’è chi pensa ad altre soluzioni. Il nuovo inquilino di Palazzo Chigi, il post-comunista Massimo D’Alema, pensa che dalla “razza padrona”, ai “boiardi si Stato” si debba passare alla “razza padana”. E infatti compaiono sulla scena due personaggi incredibili che sbaragliano il campo: il ragioniere di Mantova Roberto Colaninno e un raider della finanza, il bresciano Emilio Gnutti. A partire dal febbraio 1999 la Olivetti attraverso la Tecnost di Roberto Colaninno, lancia un’offerta pubblica di acquisto e di scambio riuscendo a ottenere nel giugno del 1999 il controllo della società con il 51,02%.
Per alcuni è un trionfo di nuovi “capitani coraggiosi”, per altri una sorta di incubo da svelare agli psicanalisti. In effetti la somma con cui fu effettuata la scalata fu di 61mila miliardi di lire. L’Olivetti li ricevette in prestito direttamente dalla banche e con obbligazioni della controllata Tecnost grazie all’emissione di nuove azioni per oltre 37mila miliardi. Successivamente Tecnost venne fusa con Olivetti per accorciare la catena di controllo. A questo punto è la Bell di Emilio Gnutti, società finanziaria che ha sede in Lussemburgo, a controllare la catena con il 22% di Olivetti. Detta in questo modo ci troveremmo solo di fronte a una riedizione delle “scatole cinesi” di marca italiana, con uno stile piuttosto inferiore a quelle congegnate da Cuccia, ma in questo caso bisogna riferire dell’altro, che è stato oggetto di libri come “L’affare Telecom” di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons. Qui basta ricordare il capitolo Seat-Pagine Gialle.
La Seat era un divisione della Stet-Telecom, prima insomma della loro fusione. Siamo nel 1996 e alla guida c’è Guido Rossi che decide di trasformare questa divisione, che si occupa della raccolta delle pubblicità per le Pagine Gialle, in una società autonoma. Nasce così la Seat che viene avviata a un’immediata privatizzazione. Nessuno ha mai capito il senso di quel distacco della divisione Seat quando si è alla vigilia della privatizzazione dell’intera Telecom. In tutti i casi, nel 1996, parte la privatizzazione della Seat affidata alla famosa Lehman Brothers.
Comincia una strana avventura. Scrive Paolo Cirino Pomicino in “Dietro le quinte”: “Dopo aver pubblicato il bando e dopo che i pretendenti si erano ridotti a meno di sei, infatti, la Telecom, annuncia che riacquisterà il subito il 20% delle azioni della società che pure ha appena deciso di cedere sul mercato. Cosa abbia convinto l’avvocato Rossi e il ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, a contraddirsi così spudoratamente nel giro di pochi mesi non è dato di sapere anche se è possibile sospettarlo”. Pomicino continua: “Nell’aprile del 1997 ho scritto che la gara per acquistare la Seat sarebbe stata vinta dalla cordata guidata dalla De Agostini, dalla Comit, dall’editoriale L’Espresso-Repubblica e dalla Bain Cuneo. Facile profezia”.
Cirino Pomicino documenta i guadagni: “Ciò che la De Agostini di Marco Drago e Lorenzo Pelliccioli ha risparmiato sull’acquisto, però, è poca cosa rispetto a quanto ha guadagnato due anni e mezzo dopo, quando la Seat viene rivenduta alla Telecom di Colaninno che la fonde con la sua Tin.it, la sua società di Internet. Proviamo a fare due calcoli. Il 25 novembre 1997 Comit-De Agostini acquista il 61,7% della Seat per 1665 miliardi di lire (sulla base di una valutazione complessiva della società di 3200 miliardi). Il 15 marzo 2000, e cioè trenta mesi dopo, Colaninno acquista il 20% della Seat per la cifra record record di 7188 miliardi. Otto mesi più tardi, e cioè nel novembre dello stesso anno, la Telecom acquista un altro 17% per 5750 miliardi e spende ancora 5000 miliardi per l’8% che le viene consegnato dal mercato dopo l’Opa obbligatoria. In parole povere, chi aveva acquistato la Seat a 1655 miliardi la rivende trenta mesi dopo a quasi 18mila miliardi, 16345 miliardi in più”.
A parte la “strana avventura”, c’è poi ne “L’affare Telecom” tutto il percorso tortuoso, impossibile da decifrare, delle finanziarie lussemburghesi e di altri “paradisi fiscali”. E non si aggiunge in questa sede la questione “Telecom Serbia”, giusto per non infierire. Ma non eravamo entrati nella celebre “seconda repubblica”, nel “regno della trasparenza”? Non pare proprio. Neppure quando la Telecom di Colaninno ha l’acqua alla gola. All’inizio del 2001, nonostante abbia ceduto importanti asset, il gruppo Olivetti-Telecom è in grandissima difficoltà e la “razza padana” di Colaninno, Gnutti e i loro soci è costretta a passare la mano. Viene trovato un accordo con Tronchetti Provera e i Benetton. Per il 23% della Olivetti (posseduto da Bell) i nuovi proprietari di Telecom Italia pagano 4,175 euro per azione, una cifra enorme considerando che la Olivetti quotava in Borsa solo 2,25 euro.
Anche qui si aprono interrogativi, quesiti collegati a manovre della Pirelli di Marco Tronchetti Provera negli Stati Uniti. Ma basta solo ricordare come appare ridicolizzata la questione public company, “nocciolino” e nocciolone”. Tronchetti Provera, con i figli, è semplicemente il padrone di una società in accomandita per azioni non quotata in Borsa, che si chiama Marco Trochetti Provera &C. Questa privatissima società possiede il 56% di una scatola, anch’essa non quotata, la Gpi, dove confluiscono gli interessi anche delle famiglie Puri e Pirelli. Alla Gpi fa capo il 56% della Camfin, una piccola società quotata in Borsa, la quale ha in portafoglio il 29,9% della Pirelli &C, quotata in piazza Affari e soprannominata Pirellina che controlla il 38% della Pirelli Spa detta Pirellona, anch’essa trattata in Borsa. La Pirellona detiene il 60% di una scatola non quotata, l’Olimpia, nella quale viene infilato il 28,7% di Olivetti, che controlla il 55% di Telecom Italia alla quale fanno capo la Tim, per il 56%, e Seat -Pagine Gialle, per il 57%, tutte quotate.
Il Financial Times disegna questo schema come la “Torre di Pisa” e ci ricama commenti ironici. È comunque una “Torre di Pisa” che rende. Perché se un terremoto cancellasse Telecom, Tronchetti parteciperebbe alla grave perdita con lo 0,018% del totale. Non si può fare che i complimenti a questi “capitani coraggiosi”, che il compianto Marco Borsa, grande giornalista economico del Corriere della Sera, aveva definito “Capitani di sventura”.
Il resto della privatizzazione Telecom si sa. Tronchetti dura fino al 2006, poi inciampa sulle questione della “rete” da scorporare o da non scorporare. Ritorna l’avvocato Rossi, dopo un’ exploit Federcalcio che lo rende prima popolare e poi tanto impopolare da non parlare mai più di “gioco del pallone”. Arriverà Telco alla fine, senza Tronchetti, ma con gli spagnoli di Telefonica. Ritornerà così Bernabè e, come al solito, Telecom è costretta a restare in stand-by. Risultato della privatizzazione? Dalle cronache appare devastante sul piano gestionale, per i manager che, se paragonati a quelli pubblici, hanno fatto letteralmente ridere.
E per i soldi? Cirino Pomicino risponde: “Lo Stato ha guadagnato molto meno di quello che poteva guadagnare”. Per Davide Giacalone, ex membro del consiglio di amministrazione di Sip e oggi affermato pubblicista: “Lo Stato ci ha perso alla grande, considerando il valore che aveva tutto il settore delle telecomunicazioni”.
(8- continua)