Criticare le privatizzazioni negli anni Novanta era una sorta di tabù. Dopo la “fine della storia” decretata da Francis Fukuyama, si rischiava non solo di ritornare nella storia, ma anche di passare per antistorici, o di essere addirittura fuori dalla storia. Se questo avveniva per tutti i settori delle Partecipazioni Statali, il concetto di privatizzazione era addirittura “magico” soprattutto per le banche.



Prima del 1992, lo Stato controllava il 73% di quella che potremmo chiamare l’industria del credito. Quindi l’operazione di privatizzazione è stata imponente e ha rappresentato un’autentica rivoluzione in nome di una marcata ortodossia liberista. C’è un autentico playmaker in questo grande processo di privatizzazione: l’attuale Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, che allora occupava la posizione strategica di Direttore Generale del Tesoro.



Per Draghi non c’era neppure da aspettare un quadro legislativo che prevedesse le liberalizzazioni, in modo che il processo di privatizzazioni non sostituisse ai monopoli pubblici dei monopoli privati. Si riteneva, quasi, che quel Parlamento dei primi anni Novanta, quando si era in piena delegittimazione di Tangentopoli, non fosse in grado di operare e di legiferare e questo avrebbe comportato ritardi inaccettabili. Pertanto via libera alle privatizzazioni, magari rischiando che le susseguenti e necessarie liberalizzazioni sarebbero restate soltanto una chimera.

Diciamo pure che per spiegare questo caso si ritorna all’origine della necessità delle privatizzazioni: fare cassa e staccare il biglietto di ingresso nell’euro al primo turno. Ma possiamo subito aggiungere che anche chi partecipò alla “struttura” di Draghi ha ammesso recentemente che quella scadenza fu usata come una sorta di leva per ridisegnare e ridurre il ruolo dello Stato, la presenza dello Stato nell’economia italiana. Forse la fretta è stata una cattiva consigliera anche in questo caso delle banche? Cerchiamo al momento di comprendere quello che è possibile.



Il problema resta sempre quello di fondo che si è già affrontato nei processi di privatizzazione: il valore degli asset venduti, anche se hanno fatto cassa, è valutabile in modo positivo? In altri termini, gli asset venduti valevano di più, oppure, se valorizzati, avrebbero fatto ancora più cassa? In definitiva, è stato un affare vendere subito e in quella maniera?

Paradossalmente i dati non sono sempre omogenei, anche se si tratta di vendita di beni dello Stato, quindi di tutti i cittadini italiani. Ad esempio, il vecchio Credito Italiano, oggi Unicredit, fu venduto per 1830 miliardi di lire, corrispondenti a una capitalizzazione della banca di 2700 miliardi di lire, mentre il valore della banca in base della quotazione di Borsa il giorno di fissazione del prezzo era di 3012 miliardi. È la stima più credibile. Il fatto è che, appena dopo sei ani di privatizzazione, Unicredit capitalizzava già 26593 milioni di euro. Per quanto riguarda la Banca Commerciale Italiana, la banca di Raffaele Mattioli, che aveva il più grande “know-how” nel credito per l’impresa, fu ceduta per 2891 miliardi di lire che divennero 3005 per via del dividendo del 1993.

 

In un primo momento le due banche entrarono nella galassia di Mediobanca, creando uno scompiglio indescrivibile, perché la banca di Enrico Cuccia con circa mille miliardi, che corrispondevano al 15% delle azioni, controllava sia il vecchio Credit che la Comit. La cosa più curiosa di tutta la vicenda è che le due banche erano a loro volta azionisti di peso in Mediobanca. Anche in questo caso bisognerebbe aprire un “romanzo” per comprendere come tutto sfumò per Mediobanca nel giro di pochi anni e si trovò poi spiazzata rispetto a una banca commerciale di riferimento (Mediobanca, banca d’affari, era una “costola” della vecchia Commerciale) e a essere messa addirittura in discussione nella sua funzione. Se non esisteva più la distinzione tra banche d’affari e banche commerciali, si diceva, che farsene ormai di Mediobanca? È anche in quel periodo che maturano nuovi equilibri finanziari in Italia e si consumano antiche vendette.

 

In tutti i casi, lasciamo ad altri contesti la descrizione di questo periodo di “guerre finanziarie” e proseguiamo nella doppia lista delle vendite e del valore, che comunque resta difficile, perché gli accorpamenti, le fusioni e le “guerre finanziarie” rendono tutto più complicato. Sta comunque di fatto che, ai valori di Borsa del 1998, Intesa Bci (compresa la Comit dopo una lunga battaglia per l’acquisizione) capitalizzava 20760 milioni di euro. La Banca di Roma venduta per 977 milioni di euro, capitalizzava 4.087 milioni di euro. Un caso a parte, che ha dell’incredibile, è quello del Banco di Napoli. Il 60% che lo Stato vendette alla Bnl per 32 milioni di euro (dopo averlo ripulito di crediti inesigibili e di perdite per 6.200 milioni di euro) è stato rivenduto dopo pochi anni da Bnl per mille milioni di euro.

 

Di fronte a queste cifre, piuttosto strane, apparve ancora più strano il commento del ministro del Tesoro dell’epoca, Carlo Azeglio Ciampi: “Il Tesoro vuole valorizzare prima di vendere. È un suo dovere nei confronti dei cittadini, che dopo aver profuso risorse per risanare i conti delle imprese pubbliche non tollererebbero regali al momento della loro vendita”. Alla faccia! Occorre pure considerare che i prezzi di vendita forniti, di cui siamo a conoscenza, sono lordi. Da questi vanno infatti sottratti i costi delle operazioni di privatizzazione, che includono le commissioni per i collocatori in Borsa (banche e consulenti), così come le spese di registration e listing sui mercati azionari (spese per adempimenti Consob e Sec e altri adempimenti normativi).

Questi costi sono scesi nel corso degli anni, ma sono sempre dell’ordine del 2-3% sull’ammontare totale del ricavato. Una fetta consistente di questo guadagno, circa l’1% sull’ammontare totale, è andato diritto nelle già ampie tasche delle banche d’affari anglosassoni (JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, First Boston, Merril Lynch e via cantando) per la loro attività di consulenza. Senza ovviamente rischiare un dollaro. Tralasciamo i rumors che questo “saccheggio” di consulenze ha fornito negli anni successivi, quando alcuni protagonisti delle privatizzazioni divennero importanti consulenti, ben pagati, di queste merchant-bank.

 

Il “regalo” alle banche anglosassoni non fu solo quello relativo alla privatizzazione delle banche, ma a tutto il complesso delle privatizzazioni. Se il calcolo che viene fatto è quello di 220mila miliardi di lire incassate dallo Stato per il complesso delle privatizzazioni, i signori delle merchant bank si sono trovati in tasca, senza colpo ferire, 2200 miliardi di lire.

 

In tutti i casi, non limitandoci a questi “dettagli”, possiamo dire che dati i valori di costo e i valori successivi, nel giro di pochi anni, delle quotazioni di Borsa sembra di trovarsi di fronte a una sorta di “svendita” o tuttalpiù di “saldi di fine stagione”. Per essere precisi, quale fine stagione? Quella dell’Italia come anomala economia mista, dove lo Stato aveva un peso decisivo nell’economia, ma che tuttavia lasciava spazio sia a un nucleo di grande impresa privata, ma soprattutto lasciava spazio a una proliferazione di una miriade di piccole medie imprese tra le più vivaci del mondo.

 

Torniamo ancora alle banche italiane. Il processo di privatizzazione non aveva come scopo solo la questione (certamente importante) di fare cassa e aggrapparsi al primo giro dell’euro. All’inizio degli anni Novanta si pontificava sulle public company, con molta leggerezza in verità, senza ben conoscere poi chi governa veramente all’interno di queste public company anglosassoni. Ma si può tralasciare questo aspetto e pensare ai discorsi tonitruanti in quegli anni sulla libera concorrenza e sulle liberalizzazioni. Insomma, il processo di privatizzazione anche in campo bancario avrebbe dato il via a una sorta di “golden age”, dove i cittadini avrebbero avuto accesso ai depositi, ai risparmi e al credito in un mondo di libera concorrenza.

Si può rispondere innanzitutto con quello che è successo e sta accadendo ancora in seguito alla grande crisi finanziaria del 2008, nata principalmente proprio nelle banche, con un uso spregiudicato della leva e una serie di operazioni di architettura finanziaria che hanno solo costruito un castello di carta. Ma c’è di più. Con una sorta di strana miopia non si considerava che, a livello mondiale, era in atto un processo di concentrazione bancaria impressionante. Per avere solo un’idea di questo processo di concentrazione, basta ricordare che dal 1990 al 2000 sono state effettuate nel mondo 7500 fusioni e acquisizioni tra banche per un valore di 1600 miliardi di dollari. Questo processo è continuato anche negli anni Duemila, ma si è concentrato soprattutto dal 1997 all’anno 2000. E tutto questo ha coinvolto anche l’Europa. Sono cresciute le joint venture e le alleanze strategiche di banche di diversi Paesi, ossia forme soft di fusione.

 

Per quanto riguarda specificamente l’Italia, basta ricordare che dal 1987 al 2000 il numero delle banche è sceso da 1200 a 864 e, soprattutto, alla faccia della concorrenza, della liberalizzazione e delle public company si sono costituiti, verso la fine degli anni Novanta, cinque gruppi che, da soli, controllano quasi il 50% del mercato del credito: Unicredit, Intesa Bci, San Paolo Imi, Banca di Roma e Montepaschi. Si pensi che, prima della grande crisi del 2008, Unicredit si è fuso con Capitalia, cioè ex banca di Roma, Intesa con San Paolo. Quindi sono rimasti tre poli.

 

Quando Lorenzo Necci parlava, con tristezza, delle privatizzazioni italiane, diceva sempre: “E non le ho ancora parlato delle banche…”.

 

(9- continua)