Vendere, vendere, vendere. Magari svendere. Oppure liquidare, anche si ci rimetti. All’inizio degli anni Novanta, l’Italia appare come un “paziente da psicanalizzare”, nel migliore dei casi. È un Paese nevrotico che sembra affetto da complessi di inferiorità. Non se ne comprende bene il motivo, dato che negli anni Ottanta, malgrado lo stock del debito pubblico, l’Italia è entrata nel gruppo del “G7”, un fatto impensabile solo un decennio prima.



Ma le cronache e le riflessioni di quei tempi possono essere rivissute da qualsiasi persona che voglia raggiungere un brandello di verità. Il terzo ente pubblico delle Partecipazioni Statali si chiama Efim. È il più piccolo e mal messo, ma ha avuto una sua funzione e, nel bene o nel male, ha svolto un ruolo non secondario nello sviluppo economico del Paese. Efim significa Ente finanziamento industria manifatturiera. Nasce nel 1962 con altro nome e poi si consolida nel 1967. Viene costituito come ente autonomo di gestione del Fim, il Fondo dell’industria meccanica, nato nel dopoguerra per rendere rapido il processo di riconversione della produzione bellica dell’industria del Paese.



Dell’Efim si parlava, secondo “vulgata” e luoghi comuni, come di una sorta di “cimitero degli elefanti”, oppure di un “feudo” prima socialdemocratico e poi socialista. A ogni buon conto l’Efim comprendeva 114 aziende industriali. Le attività riguardavano l’industria dell’alluminio e del vetro, i mezzi e i sistemi di difesa, l’aeronautica e l’elicotteristica, i mezzi di trasporto, la meccanica varia e l’impiantistica e anche alcune attività finanziarie. Non tutte le aziende andavano male, ma, certo, nel complesso i conti erano in profondo rosso.

Che cosa avrebbe fatto un buon amministratore, oppure un manager come si dice di questi tempi? Con tutta probabilità avrebbe tentato di risanare il possibile, di tagliare i rami secchi, i doppioni produttivi, le produzioni fuori mercato. Poi, fatta questa prima razionalizzazione o almeno tentata, avrebbe cercato di collocarla sul mercato, vendendo e ricavando il più possibile. Trattandosi poi di un ente di Stato, c’era pure la necessità di non fare “una figura barbina”, non compromettere l’immagine dell’Italia all’estero in un momento che si annunciava molto delicato per il nostro Paese.



Invece l’Efim è la prima fortezza delle Partecipazioni Statali che viene smantellata sull’altare delle privatizzazioni, alla moda del libero mercato assoluto, e apre la strada non solo alle altre, intaccando la credibilità di enti come Eni e Iri, ma apre la strada a un’Italia in completo disarmo, in ritardo con l’Europa e la grande svolta liberista che vuole l’Europa e l’ideologia dominante. Il complesso d’inferiorità di una subcultura che non difende la propria identità e non cerca di aggiornarla nei tempi giusti. Il cosiddetto “dottor sottile”, Giuliano Amato, il personaggio che come sottosegretario di Bettino Craxi risolveva tutti i casi ingarbugliati dei poteri dello Stato, il 18 luglio 1992 annuncia, come presidente del Consiglio, le privatizzazioni di grandi aziende pubbliche e la liquidazione dell’Efim.

Per strana coincidenza, in quel luglio del 1992, si è all’inizio anche dalla stagione di Tangentopoli. Amato motiva questa scelta facendo un quadro fosco della situazione economica del Paese e spiegando che si era entrati ormai in un altro mondo, dove il liberismo era legge culturale e europea. A questo punto il problema della liquidazione dell’Efim, le privatizzazioni e una finanziaria da 30mila miliardi offrono un’occasione spettacolare alla grande speculazione internazionale. Il Financial Times del 21 luglio 1992 commenta con parole di fuoco quella mossa dell’Efim: un atto che equivaleva al congelamento del debito estero. Lo stesso giorno, l’agenzia di rating americana Moody’s declassa il debitore Italia da AA1 a AA3. La politica del “dottor sottile” è tutt’altro che “sottile”. Tanto che lo stesso Giuliano Amato è costretto a fare autocritica il 21 maggio 1993: “È stato grave da parte mia prendere quella decisione che ha sconquassato la credibilità internazionale dell’Italia e della lira”. Sofferta e splendida confessione, peccato che sia arrivata un pò tardi. Dato che “i buoi erano già scappati dalla stalla”.

 

In effetti, nel suo rigore, Amato aveva aggiunta una chicca che Guido Carli definì un “errore fatale”: l’imposta straordinaria sui depositi bancari. Questo innescò la crisi valutaria e la lira, come ovvio, divenne il bersaglio preferito dagli speculatori. George Soros, americano di origini ungheresi, si fece imprestare un miliardo di dollari al tasso del 5% per speculare al ribasso sulla sterlina e sulla lira. A conti fatti portò a casa un guadagno del 560%. Forse fu per questa ragione, che qualche tempo dopo, fu premiato all’Università di Bologna, con a fianco un Romano Prodi quasi compiaciuto.

 

Alla fine il problema era di una banalità inquietante. Come ha scritto Giuliano Cazzola in “IlbeneAmato”, lo stesso presidente del Consiglio, resosi conto dell’errore, aveva confidato a un amico: “Lo Stato si è comportato come un pizzicagnolo che, oberato dai debiti, chiude bottega senza pagare la bolletta della luce”. Sulla questione Efim nasce anche un contenzioso con la Comunità europea. Il Commissario alla concorrenza Karel Van Miert raggiunge un accordo con Beniamino Andreatta. L’accordo che impone Van Miert solleva il problema che “la garanzia dello Stato sui debiti di società per azioni al cento per cento del Tesoro fosse un aiuto di Stato”. Cioè il padrone dell’azienda aiuta l’azienda, e se è lo Stato a farlo, diventa un “aiuto di Stato”.

 

Andreatta si dichiara “sorpreso” del ragionamento di Van Miert, ma l’accetta perché “efficace”. In questo clima di interpretazione di leggi almeno stravagante, si procede sulla strada della liquidazione dell’Efim, con commissario l’avvocato Alberto Predieri. Quest’ultimo si presenta come un duro e un tagliatore di teste. Nei fatti, Predieri fa di tutto per liquidare il management Efim (alcuni ebbero guai giudiziari, come ovvio in quel periodo) di cui non si fidava e diede una serie di incarichi esterni e di consulenze pagate a peso d’oro le cui spese ricadevano sul groppone della liquidazione.

 

Che il conto della liquidazione dell’Efim sarebbe stato salato se ne aveva la consapevolezza sin dall’inizio, ma non si poteva immaginare che avrebbe superato tutte le cifre supposte. A undici anni dalla liquidazione, nel 2004. il costo calcolato era di 6 miliardi e 708 milioni di euro. Ma c’era di più. Il tormentone sulla liquidazione non finiva e la Corte dei Conti valutava una lunga fila di pagamenti che avrebbero fatto lievitare il costo di 351 milioni di euro per un costo complessivo di 7 miliardi e 59 milioni.

Anche il Corriere della Sera si svegliava nel 2003 e scriveva: “La Corte dei Conti è preoccupata per il crescente esborso delle consulenze e degli incarichi legali. Nel 2002 la spesa per questi capitoli ha raggiunto 5 milioni 473mila euro, più del doppio rispetto ai 2 milioni 371mila euro pagati l’anno precedente. I magistrati contabili segnalano però che si tratta di pagamenti relativi a incarichi assegnati in gran parte dalla precedente gestione commissariale e che della somma complessiva ben 3,2 milioni di euro sono relativi a patrocinio legale. Con parcelle adeguate. Dall’elenco allegato risulta che un solo studio legale ha incassato una parcella di 954 mila euro, e un singolo avvocato ha intascato un assegno di 819 mila euro. Mentre a un esperto è stata pagata una consulenza tecnica di 928.200 euro”.

 

Alla fine, dunque, questo “racconto nero” dell’Efim è veramente paradossale. L’Efim fu liquidato per insolvenza e la gestione commissariale che subentrò al Consiglio di amministrazione scialò parecchio denaro del contribuente pubblico. È un caso di scuola che non dovrebbe essere mai preso in considerazione. Anche perché le alternative a questo sconquasso c’erano. Bisognava solo non essere presi dalla fretta della cosiddetta “modernità” e non essere stregati dal “complesso di inferiorità” nei confronti di una cultura che non contemplava le partecipazioni statali.

 

A che servono ora le autocritiche di Giuliano Amato: “In questa storia il mio governo si è giocato parte della sua faccia. la fretta è cattiva consigliera. Ho ricevuto pressioni per chiudere l’Ente”. Sarebbe almeno interessante sapere chi “premeva”. Ma intanto nel giorno in cui fu annunciata la liquidazione dell’Efim, in un quadro di tinte fosche e di altre manovre discutibili, all’estero si pensò che l’Italia vivesse un altro 8 settembre.

 

(6 – continua)