Ripetiamo un concetto con cui abbiamo aperto questa breve inchiesta sulle privatizzazioni all’italiana degli anni Novanta: non c’è stato nessun complotto, nessuna cospirazione, nessuna congiura particolare. Chi legge la storia in questo modo denuncia solo la proprio ignoranza nell’osservare e riflettere sulla realtà. E così facendo schematizza brutalmente i contrasti di interessi che ci sono sempre stati nella storia dell’umanità e delle società in particolare. Il che non significa che, in questa contrapposizione di interessi di gruppi o di lobbies, non si possano vedere “traditori”, “irresponsabili”, “personaggi mossi dall’avidità” di un guadagno a breve termine, ricercatori di nuovi equilibri politici ed economici e, infine, l’interesse di altri Stati contro il sistema italiano.
Già, il sistema italiano, il “calabrone” che riesce a volare, l’anomalia che funziona, per usare le metafore in voga fin dagli anni Settanta dagli ultra-razionalisti liberisti o programmatori-democratici che hanno sempre dimenticato, probabilmente, non tanto la nazione italiana, ma la civiltà italiana, che ha millenarie tradizioni di non-profit, di creatività imprenditoriale e di lavoro artigianale, di radicamento municipale, di carità cristiana e di solidarietà laica o laicista. Francesco Guicciardini ammoniva nel Cinquecento: non attenderti mai niente dagli italiani, perché ti deluderanno; ma quando nulla ti aspetterai da loro, saranno capaci di stupirti.
L’Italia esce dall’ultima guerra mondiale distrutta, ma per l’accortezza di grandi uomini politici, di bravi imprenditori, di ottimi manager pubblici e di un popolo che ha voglia di riscatto riesce a fare un balzo economico e sociale incredibile con tassi di crescita del Pil per oltre dieci anni, del 6,5% e del 7,5%. La base di questa rinascita e di questo sviluppo è dovuta alla combinazione di alcuni fattori: creatività lavorativa; un apparato di grandi industrie pubbliche che non sono ereditate dal fascismo, ma dalla grande scuola di Alberto Beneduce; innovazione di grandi industrie private; nascita di una piccola e media impresa diffusa sul territorio con capacità straordinarie; scelta atlantica e occidentale che ci associa al piano Marshall e ci assegna una posizione strategica di grande vantaggio.
Dopo il boom economico l’Italia resiste ai venti della “guerra fredda”, alla reazione interna di una sinistra classista e leninista che non ne ha “indovinata una che è una”; allo shock petrolifero degli anni Settanta; poi alla ribellione del ‘68 e al terrorismo fino al confronto cruciale sugli euromissili, che è l’ultima impennata dell’impero sovietico. Nonostante tutto questo, l’Italia riesce a entrare nel consesso delle grandi potenze industriali, il G7.
Alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, l’Unione Sovietica implode e crolla. È la fine di un’epoca e cambia di conseguenza tutto il quadro geostrategico. Ma cambia anche il modo di pensare comune. È l’epoca del trionfo del liberismo, del modello del mondo occidentale, del capitalismo anglosassone. Il comunismo reale e qualsiasi sfumatura di dirigismo economico, persino socialdemocratico, viene messo in soffitta come un reperto di archeologia ideologica. Alla fine, in questo sommovimento di idee, persino la domanda aggregata di John Maynard Keynes viene scambiata per una vecchia ciabatta di cui disfarsi.
L’Italia entra nella logica di un cambiamento necessario. Il primo ad ammetterlo sarà lo stesso Bettino Craxi, che poi sarà la “vittima sacrificale” della grande svolta. Il paese ha bisogno di un’iniezione di liberismo e quindi ha bisogno di ripensare alla sua industria pubblica, alle Partecipazioni Statali che occupano di fatto più del 50% dell’economia nazionale. Ci sono necessità oggettive, ma ci sono anche urgenze senza senso. Come si può riconvertire un apparato pubblico industriale senza mettere a repentaglio la funzionalità del sistema? Come è possibile far partire un processo rapido di privatizzazione senza avere un quadro istituzionale e normativo di liberalizzazione, in modo che ai monopoli pubblici non si sostituiscano i monopoli privati? Come è possibile vendere e non svendere, valutando esattamente il valore del patrimonio pubblico industriale e del suo potenziale nel giro di pochi anni?
La necessità di privatizzare è determinata da alcuni fattori oggettivi: lo stock del debito italiano, una crisi finanziaria grave, la necessità di fare cassa per entrare subito nell’euro, la pressione della speculazione internazionale sulla lira e la rigidità dei finanzieri tedeschi. Ma queste preoccupazioni, oggettive, sono bilanciate dal ruolo che l’Italia ha nel mondo con il suo apparato produttivo. La Confindustria tedesca e quella francese votano addirittura documenti per fare in modo che l’Italia entri subito nell’euro. Non è una “prova d’affetto”, ma il terrore che l’Italia, con una moneta debole e magari svalutata, riesca a realizzare un boom di esportazioni senza precedenti. I tempi di una trattativa per valutare la portata della svolta ci sono.
Il problema a questo punto diventa principalmente politico e di spartizione di potere. All’inizio degli anni Novanta ci sono in Italia tre soggetti collettivi in profonda crisi. Il primo è rappresentato dal gruppo dei cosiddetti “poteri forti”, cioè il vecchio nocciolo dei grandi imprenditori privati e dei nuovi rampanti finanzieri e banchieri. Si vogliono preparare alla sfida della globalizzazione, hanno paura della concorrenza perché per anni hanno vissuto di protezionismo e si vogliono sganciare dal potere politico e dagli apparati finanziari che li hanno protetti e tutelati. La Fiat langue e sta per entrare in una profonda crisi. Il geniale De Benedetti con la sua Olivetti non riesce più a concludere grandi business ed è stato “bastonato” nell’”Affare Suez”. Il vecchio Pirelli ha consumato ogni sua energia nella conquista mancata della Continental. Enrico Cuccia, che viaggia verso la novantina, li guarda spesso con irritazione e comprende che i suoi margini di manovra sono ridotti.
Il secondo soggetto collettivo è il mondo comunista italiano, che con il crollo di Mosca, le carte del Kgb che sono a disposizione di tutti, le varie compromissioni e la sua povertà di linea politica, deve addirittura cambiare nome, cercando di ripararsi da tutte le compromissioni che ha avuto con il mondo del “socialismo reale” per almeno cinquant’anni. Il vecchio Pci ha necessità di cambiamento, di copertura e di non essere escluso dal gioco di potere, altrimenti rischierebbe il collasso. A rimorchio dei comunisti, diventati post-comunisti, ci sono i cattolici di sinistra, teorizzatori di un compromesso storico che vede un asse democratico solo nei rapporti tra un certo mondo cattolico e quello comunista.
Il terzo soggetto collettivo è la magistratura italiana, umiliata nel 1987 da un referendum promosso dai partiti democratici. Tanto per intenderci, sull’onda del “caso Tortora”, ben 20.984.110 italiani, l’80,6% dei votanti, contro 5.588.190, il 19,4% dei votanti, chiedono la responsabilità civile dei magistrati, l’abrogazione della Commissione inquirente e del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. L’errore della classe politica è di non dare seguito ai referendum promuovendo delle leggi. Al momento opportuno, la magistratura reagisce, non tanto con la parte consistente delle “toghe rosse”, ma come casta anacronistica nel suo insieme, barricata nei suoi privilegi, con carriere intrecciate, giudice e pm che vivono nella stessa “bottega” e che per anni stavano, anche scenograficamente nei tribunali, sullo stesso banco contro la difesa.
Ironia della sorte o alterna fortuna, guarda caso saranno proprio questi tre soggetti collettivi ad accompagnare come protagonisti, e in sintonia tra loro, le privatizzazioni italiane con il confuso periodo di Tangentopoli. I tre soggetti collettivi possiedono anche notevoli “armi”: l’informazione stampata dei giornali che contano e un’incredibile uniformità di informazione televisiva. In quel periodo non ci saranno solo Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa a scatenare una campagna contro la “classe politica corrotta”, ma persino Emilio Fede ed Enrico Mentana, gli uomini Mediaset, si scateneranno sotto i tribunali insieme agli inviati della Rai nel denunciare corruttele e incroci perversi tra politica e affari. E i protagonisti di questa informazione sono in stragrande maggioranza dei reduci del ‘68 e della sinistra sconfitta dalla storia.
Le privatizzazioni sulla grande informazione passeranno sotto silenzio, o sotto traccia, mentre si moltiplicheranno i casi di corruzione, fino a un totale di 20 mila indagati, migliaia di imprigionati che in stragrande maggioranza verranno poi assolti. Ma intanto le privatizzazioni vanno avanti e si fanno. L’incasso lordo per lo Stato viene valutato in 220 mila miliardi di lire, a cui va sottratto, tra altre voci, un 1% secco che guadagnano le banche d’affari anglosassoni per le loro consulenze, fornendo così un canale privilegiato di interessi politico-finanziari che fino a qualche anno prima era impensabile.
Se quei valori di vendita vengono rapportati, dopo pochi anni, ai valori di quegli asset ci si spaventa e si pensa che le privatizzazioni, realisticamente, sono state una svendita, un “saldo di fine stagione”. Ma nessun dibattito decolla in merito a questo grande affare e le poche voci che confermano la svendita vengono marginalizzate oppure neppure prese in considerazione. Narrano alcune leggende metropolitane (ma forse più vere di quanto si pensi) che negli ultimi anni di vita, Enrico Cuccia si ricredesse sull’appoggio iniziale dato alla svolta delle privatizzazioni e non fosse affatto d’accordo con l’azione della magistratura. Ma più in generale Cuccia rileggeva con curiosità i principi di un autore che apprezzava con terrore, il polemologo cinese Sun Tzu, vissuto circa 2500 anni fa al tempo dei “Reami combattenti”.
Il primo principio di Sun Tzu era di pura tattica militare: accendi un falò sulla sponda del fiume e attacca sull’altra sponda. Ma la sintesi dei suoi tredici precetti è il frutto di un mondo oscuro, di una razionalità maligna in un mondo confuso. Sembra che Cuccia, guardando all’Italia dal 1968 all’inizio degli anni Novanta, vi trovasse una sintonia particolare con questi precetti:
1) Screditate tutto quello che c’è di buono nel paese dell’avversario; 2) Implicate i rappresentanti dei gruppi dirigenti del vostro avversario in azioni criminali; 3) Scuotete la loro reputazione e abbandonateli al momento opportuno al disprezzo dei loro concittadini; 4) Utilizzate la collaborazione delle persone più vili e abominevoli; 5) Disorganizzate con tutti i mezzi l’attività dei loro governanti; 6) Spargete la discordia e le liti tra i cittadini del paese ostile; 7) Spingete i giovani contro i vecchi; 8) Ridicolizzate le tradizioni dei vostri avversari; 9) Sconvolgete con ogni mezzo l’amministrazione, gli approvvigionamenti e l’esercito del nemico; 10) Indebolite la volontà dei guerrieri per mezzo di canzoni e musiche sensuali; 11) Mandate delle prostitute per completare l’opera di distruzione; 12) Siate generosi con promesse e regali per comperare informazioni. Non fate economia di denaro, perché il denaro così dispensato porta un ricco interesse; 13) Infiltrate dappertutto le vostre spie.
Sun Tzu fu studiato attentamente dai bolscevichi, da Willy Muenzenberg in particolare, il genio della propaganda in Occidente di Stalin. Fu studiato da un altro genio maligno come il nazista Joseph Goebbels. Negli anni Ottanta cominciarono a studiarlo i management delle grandi multinazionali. Oggi c’è un libretto dal titolo: “Sun Tzu, strategie per il marketing” di Gerald A. Michaelson.
Forse Cuccia pensava: ma non è che per l’Italia la guerra economica, finanziaria e commerciale è andata così?
(10- Fine)