C’è una sorta di “buco nero” negli ultimi venti anni di storia repubblicana. Alcuni libri pubblicati e passati sotto traccia, pochi articoli nei grandi giornali e nessuna inchiesta, zero al quoto infine per quanto riguarda quelli che dovrebbero essere i grandi servizi televisivi.
La massa super-concentrata di questo “buco nero” è rappresentata dal processo di privatizzazione, messo in atto a partire dall’inizio degli anni Novanta e per un arco di un decennio, di quella che era l’imprenditoria pubblica italiana. Ormai, del famoso ministero delle Partecipazioni statali, che non esiste più, ci siamo quasi dimenticati. Non si comprende bene perché un’operazione tanto complessa e tanto epocale, vista la vecchia struttura economica italiana “mista”, cioè pubblica e privata, non sia stata attentamente valutata in sede prima cronistica e poi, con il passare degli anni, storica.
In effetti quella complicata operazione offriva lo spazio a delle interessanti riflessioni. Perché la stagione delle privatizzazioni coincide con avvenimenti di grande rilevanza all’interno e all’esterno dell’Italia. Forse è sufficiente ricordare la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico per quanto riguarda il contesto mondiale.
Ma è anche necessario mettere in stretta relazione il collasso della cosiddetta “Prima repubblica” italiana, con la scomparsa di quasi tutti i partiti, e il parto, non proprio ben riuscito, della cosiddetta “seconda repubblica”, quella che avrebbe dovuto liquidare il malaffare, cioè l’intreccio tra politica e affari. Non solo nei rapporti tra partiti e imprese private, ma soprattutto nella vicinanza tra imprese pubbliche e sistema definito sbrigativamente “partitocratico”.
È vero che una lettura marxiana della storia, incentrata in “ultima analisi” sulla struttura economica, porta a schematiche riduzioni della realtà. Ma è altrettanto vero che “saltare il fosso” della questione economica, dimenticarsi della struttura produttiva del nostro Paese, così come è stata per quasi cinquant’anni di dopoguerra e già presente dagli anni Trenta, rappresenta, come si diceva all’inizio, una specie di “buco nero”.
Di fatto, dagli inizi degli anni Novanta, viene ripensata una struttura produttiva che, oltre ad alcune grandi aziende private concentrate nel Nord del Paese e a una miriade di piccole e medie imprese che hanno sempre garantito la vivacità del sistema Italia, poggiava su grande enti pubblici come l’Iri, l’Eni e l’Efim. Scrive Gianni De Michelis, ex ministro socialista agli Esteri, ma in passato anche alle Partecipazioni statali: “Un Paese a forte economia mista (sostanzialmente la grande industria e i sistemi infrastrutturali erano tutti pubblici, inclusa la finanza; la piccola e media industria tutta privata) poco propenso al rigore, con una forte economia sommersa, una tendenza inflattiva congenita e quasi necessitata e un fortissimo debito pubblico vuole improvvisamente divenire un Paese diverso. In dieci anni vuole modificare radicalmente ciò che è e ciò che ne ha fatto la ricchezza in più di cento anni. Rinunciando per di più a qualunque strumento di politica industriale”.
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Lo stesso De Michelis non è affatto contrario, in linea di principio, alle privatizzazioni, ma si chiede perché tutto avviene all’improvviso e in quel modo concitato e quasi sempre avvolto da un assordante silenzio. E non è il solo a chiederselo. Lorenzo Necci, ex amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, anche lui orientato a un processo di apertura e di liberalizzazione del Paese, dice: “Non ci si può esimere dall’osservare che in nome di un liberalismo sovente di pura facciata, predicato da alcuni ma sostanzialmente seguito da tutti e certamente dai Governi degli anni Novanta, l’intervento dello Stato nell’economia è stato prima demonizzato (la grande corruzione), poi sistematicamente distrutto (la privatizzazione)”.
Giudizi simili vengono anche dall’estero. Un uomo politico francese come Edouard Balladour afferma: “Gli italiani nella loro follia moralizzatrice stanno abbattendo tutte le loro querce più grandi”. E Alain Minc, ancora più duramente: “L’Italia vive, a modo suo, il periodo 1789-1795. Con una ghigliottina secca che decapita responsabili politici e economici. Con una legge di proscrizione destinata a fare di quelli che ieri erano gli aristocratici al potere altrettanti esuli in patria…Con l’opinione pubblica nel ruolo dei sans-coulotte di due secoli fa. Con i giornali nella comoda posizione di giustizieri. Con i delatori in cerca di salvezza personale e all’occorrenza, grazie alle loro denunce di scarcerazione. E con i paesi stranieri avidi questa volta non già di conquiste territoriali ma di acquisto delle proprietà degli imprenditori…Il Termidoro arriverà, ma quando?”.
In genere la risposta a queste osservazioni, e a queste accuse gravi, viene delineata in questo modo. Le privatizzazioni servirono per fare cassa, per ripianare parte del debito pubblico italiano, per poter proiettare l’Italia nel primo giro dell’euro. Ma esistono almeno tre domande di fondo che debbono necessariamente avere una risposta: 1) per quale ragione sono state fatte così rapidamente, perché si è deciso ad attuarle di colpo?; 2) in quale modo e con quali valutazioni sono state attuate?; 3) che cosa hanno cambiato, queste privatizzazioni, negli equilibri di potere politico-finanziario?
Più in generale, bisogna pure fare un bilancio su un punto. Dopo questa enorme operazione di cambiamento, il sistema produttivo italiano è migliorato? Si può oggi affermare che, con questo nuovo apparato produttivo, l’Italia sia in grado di affrontare i grandi problemi del mondo globalizzato? Ed esiste oggi in Italia, dopo le privatizzazioni, una autentica liberalizzazione del mercato e una concorrenza che ci possa consentire di essere a pieno titolo nel novero dei paesi di libero mercato?
È probabilmente necessario, per rimuovere i nodi storici irrisolti di questo Paese, che si ripercorra il processo di privatizzazione cominciato con l’inizio degli anni Novanta, anche guardando al contesto internazionale e a quello che è accaduto alla classe dirigente di questo Paese. E occorre farlo senza pregiudizi, cercando di creare il più possibile una operazione di cronaca, di ricostruzione non ideologica e cercando un nocciolo di verità.
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Può anche darsi che a distanza di quasi un ventennio dall’inizio del processo di privatizzazione, si possano oggi vedere le cose in modo più distaccato e ragionevole. Anche se, occorre dirlo, non facilita un’analisi serena sia l’incerto equilibrio politico di questa cosiddetta “seconda repubblica”, sia il perdurare di una crisi finanziaria ed economica che, anche se l’Italia per ora reagisce bene, ci porta inevitabilmente a fare i conti con il futuro per il nostro sistema produttivo.
Vale anche la pena di liberarsi da scenari complottistici che si sono evocati. Che il 2 giugno del 1992, al largo di Civitavecchia si incrociasse lo yacht di Elisabetta II, il Britannia, carico di finanzieri angloamericani e di alcuni funzionari del Tesoro italiano per parlare di affari riguardanti l’Italia, sta nella natura delle cose, nel gioco ininterrotto dei poteri che si contrappongono. Così come sta nella natura delle cose e nella logica del potere che la forza degli interessi economici abbia sempre condizionato i governi.
Un tempo erano le grandi compagnie di navigazione, poi i potenti mercanti internazionali, poi i banchieri, poi gli industriali, poi le multinazionali e di nuovo i banchieri. I quali stanno nel Council on Foreign Relations, nel gruppo Bilderberg e nella Trilaterale. Ma tutto questo significa condizionamenti oggettivi di un determinato periodo storico, non complotti o congiure giudaico-massoniche. Dipende dalla forza di un Paese e di un governo tener testa e ribattere a questi condizionamenti.
Quindi il problema che ci si pone è vedere, prendendo le grandi privatizzazioni, una per una, se il progetto serviva ed è poi veramente servito al sistema-Italia. Significa vedere se, a conti fatti, l’Italia, con le privatizzazioni, ci ha perduto o ha guadagnato. Insomma, se è stata brava nonostante i condizionamenti internazionali o di altro tipo. Infine, occorre ricostruire tutto il processo per dipanare quello che l’economista Francesco Forte ha chiamato “Il romanzo giallo delle privatizzazioni”.
(1- continua)