Quasi sussurrata da giornali e televisioni, la notizia della (seconda) assoluzione di Nicola Cosentino merita uno spunto di riflessione. Pochi giorni fa, i giudici della Corte di appello di Napoli hanno assolto l’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi, ben nove anni dopo l’avvio dell’inchiesta della Dda di Napoli.
L’inchiesta, che aveva portato all’arresto di oltre 50 persone, aveva visto in primo grado riconoscere la sussistenza della responsabilità penale a suo carico, con relativa condanna a cinque anni e mezzo di carcere, oltre che di una ventina dei suoi coimputati, tutti assolti in secondo grado. Per questa vicenda giudiziaria egli inoltre ha già scontato ben tre anni di misura cautelare; proprio nell’ambito di tale detenzione – ciliegina sulla torta – è derivata la quarta e ultima inchiesta nei suoi confronti (per corruzione della polizia penitenziaria) che ha prodotto la finora unica condanna definitiva.
Il collegio difensivo dell’oramai ex politico di Forza Italia ha commentato l’assoluzione sottolineando come in presenza di sentenze che leggono in maniera adeguata le prove non resta che ribadire la fiducia nella macchina giudiziaria.
Ebbene, proprio tale affermazione appare meritevole di riflessione, spingendoci a chiedere se questa assoluzione valga davvero a dimostrare che il sistema processuale funzioni ovvero se valga esattamente l’opposto.
Escludendo patologici accanimenti giudiziari, non vi è dubbio che rientri nella logica del sistema che ad una condanna in primo grado possa far seguito un’assoluzione in appello. Il nostro sistema processuale non a caso prevede tre gradi di giudizio e la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva. Fisiologico quindi che ad una condanna in primo grado faccia seguito un’assoluzione. Addirittura confortante che, a fronte del clamore che accompagna l’illustre imputato, considerato l’iceberg del sistema criminale politico camorristico campano, egli abbia ottenuto due assoluzioni in relazione alle condotte delittuose di matrice camorristica, venendo invece condannato per una corruzione alla polizia carceraria fra l’altro avente ad oggetto regali prevalentemente di mozzarella e generiche promesse in ambito lavorativo.
Anche la custodia cautelare ingiustamente espiata può essere considerata, sebbene deprecabile, pur sempre un evento legato al naturale svolgimento del processo che prevede poi meccanismi risarcitori in caso di successiva assoluzione.
Qualcosa di assai meno fisiologico risiede invece nel tempo trascorso. Nove anni sono francamente eccessivi. Per quanto certamente complesso, non possono trascorrere nove anni dall’applicazione di una misura cautelare fino alla declaratoria di assoluzione in grado di appello. Del tutto patologico è poi l’effetto finale, ciò che in tutti i casi resta impresso nella vita di chi questa vicenda l’ha vissuta da imputato. Come li ha comprensibilmente definiti lo stesso Cosentino, questi nove anni sono stati anni di inferno, rispetto ai quali, la felicità per l’assoluzione non cancella la sofferenza sua e quella dei suoi familiari.
Queste sofferenze non troveranno certo alcuna forma di risarcimento. Qualcosa non torna.
Dall’altra parte della barricata, sul fronte dell’accusa, non esiste alcun meccanismo di verifica, diciamo ora per allora, del corretto operato nei confronti di chi quelle inchieste ha tenacemente condotto. Ebbene, questo, forse, non è del tutto coerente con un sistema autenticamente democratico e liberale. Certo trovare il limite fra fisiologia e patologia di un’inchiesta che produce prima arresti e poi assoluzioni non è questione semplice.
Resta in piedi nei confronti di Cosentino l’ultimo processo, il quarto, che lo vede imputato di concorso esterno. Ove ottenesse una terza assoluzione la riflessione inevitabilmente assumerebbe altre sfumature.