«Donna costretta al burqa dal marito? Sì, rientra nelle usanze e nella cultura islamica»: si è conclusa più o meno in questo modo la vicenda di Perugia dove una 33enne, Salsabila Mouhib, ha visto archiviato dalla Procura il marito marocchino Abdelilah El Ghoufairi nonostante le denunce di violenze e maltrattamenti fatte dalla stessa moglie. Ne parla oggi “il Mattino” ospitando gli ampi stralci delle motivazioni della sentenza di archiviazione firmata lo scorso lunedì dal sostituto procuratore di Perugia, Franco Bettini.
«Il rapporto di coppia è stato influenzato da forti influenze religiose-culturali alla quale la donna non sembra avere la forza o la volontà di ribellarsi»: in sostanza, come denuncia l’avvocato della difesa, se un marito violento picchia la moglie, la segrega in casa e le impedisce di uscire con tanto di obbligo di burqa non è un reato e lo Stato italiano non può farci nulla. Se la coppia è musulmana, le condotte incresciose dimostrate in fase di inchiesta rientrerebbero «nel quadro culturale dei soggetti interessati». Questo quanto meno è l’accusa fatta dagli avvocati della difesa che non accettano l’archiviazione del marito, mentre la donna ora si trova a Napoli protetta in una struttura dopo la denuncia di maltrattamenti subiti. È in particolare un passaggio della richiesta di archiviazione emessa davanti al gip a destare scalpore, riportata sempre dal “Mattino”: «Le evidenze emerse a seguito delle attività d’indagine non consentono di ritenere configurabile o sostenibile in termini probatori il reato rubricato (maltrattamenti in famiglia, ndr)».
PERUGIA, LE REAZIONI CONTRO L’ARCHIVIAZIONE
Le minacce subite e raccontate dalla donna non sarebbero state tali, assieme alle aggressioni fisiche, «da costringerla alle cure sanitarie». E infine, terza ultima “stangata” al buon senso arriva quando di fronte alla costrizione del velo integrale musulmano, i giudici scrivono «pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati». Dopo mesi di presunti abusi psicologici e fisici, la donna aveva trovato il coraggio di denunciare dopo essere scappata a Napoli in una casa famiglia che le aveva dato appoggio e riparo. L’inferno passato nei precedenti 5 anni da Salsabila e dai due figli, raccontato agli inquirenti, non sono bastati per convincere i magistrati a procedere contro l’uomo: eppure dichiarazioni lasciate durante il processo avrebbero potuto (e forse dovuto) meritare maggiore considerazione, «quando usciva mio marito mi chiudeva in casa portando con sé le chiavi. Potevo uscire solo se mi sentivo male, per andare in ospedale. Solo in un’occasione mi ha aggredito fisicamente, colpendomi al volto con uno schiaffo. Fu poche ore dopo aver partorito mia figlia, appena rientrata dall’ospedale: pretese alle 4,30 del mattino che gli preparassi la colazione; non lo feci e lui mi diede uno schiaffone, in seguito al quale io svenni». L’avvocato De Falco ha presentato ufficiale ricorso contro la richiesta di archiviazione, come motiva al “Mattino” di Napoli: «sono molto fiducioso che il gip ribalti la decisione del pm. Le donne straniere devono avere gli stessi diritti e le stesse tutele di cui godono quelle italiane, al di là delle convinzioni religiose dei loro mariti. Questa storia impone il rinonoscimento di diritti e libertà sanciti dalla Costituzione italiana. E gli stranieri che vengono a vivere qui devono imparare a rispettare le leggi ed i princìpi». Secondo Suad Sbai, presidente della onlus “Acmid Donna” ed ex parlamentare molto attenta alla condizione delle donne nei contesti islamici, la storia di Perugia pone un quesito drammatico a cui non doversi sottrarre, «è il caso che una donna vittima di violenze in Italia continui a denunciare?». Sì, è sempre importante: ma vedere storie come queste, oggettivamente, il dubbio lo fa disperatamente venire a chiunque.