Era il 19 marzo del 2010, giusto 10 anni fa, quando usciva sulla Gazzetta ufficiale il testo della legge 38, approvato in via definitiva dal Parlamento solo 4 giorni prima: “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, una legge davvero innovativa anche nel confronto con il panorama legislativo europeo.



Quella legge nasceva dal contatto con il dolore e la sofferenza di malati fino ad allora etichettati come terminali; malati che vivevano su di un crinale pericoloso: da un lato il rischio di un accanimento terapeutico, spesso sollevato dalle stesse famiglie, che chiedevano insistentemente di fare qualcosa in più per le persone care, senza volersi o potersi rassegnarsi davanti alla fragilità e alla precarietà della vita umana.



Dall’altro il pericolo dell’abbandono terapeutico di un malato per cui prevaleva una prognosi negativa, legata all’indisponibilità di nuovi farmaci e quindi alla mancanza di terapie innovative realmente efficaci. Le cure palliative esprimevano coraggiosamente, allora come oggi, il diritto irrinunciabile del malato alle cure, pur nella accertata impossibilità di guarire. Rappresentavano il modo migliore offerto al malato per vivere l’ultima fase della propria vita assistito dalla competenza del personale medico-infermieristico, ma anche e soprattutto dalla relazione con i propri cari, a casa oppure in un contesto di cura protetto, concepito in modo innovativo, e non solo medicalizzato.



Con le cure palliative, si diceva allora e si dice ancora oggi, nessun malato può morire sentendosi solo: la famiglia e l’intero SSN, nelle persone concrete che in quel contesto specifico lo rappresentano, devono restare accanto a lui come le sentinelle del mattino. Né accanimento terapeutico, né abbandono terapeutico, ma le cure adeguate nel momento adeguato, per ricordare ad ognuno di noi che è la relazione con l’altro, sia un familiare che un professionista in atto di servizio,  che definisce la più umana delle relazioni, la relazione di cura, che rappresenta un esplicito riconoscimento della dignità della persona umana in ogni condizione e circostanza. A questa specialissima relazione fa costantemente riferimento l’etica della cura, che costituisce l’antidoto più sicuro davanti all’indifferenza.

Più volte Papa Francesco ha affermato che per annientare un uomo basta ignorarlo, l’indifferenza uccide e per questo ci invita ad aprire il cuore alla compassione e a non chiudersi nell’indifferenza. E sappiamo come sia più facile per un malato lasciarsi andare, smettere di lottare, non desiderare più la vita come un bene per sé e per le persone care, quando si sente solo e la solitudine assume lo stigma dell’abbandono.

In questi giorni siamo costantemente spiazzati dalla strana e drammatica evoluzione dell’epidemia da Coronavirus, siamo convinti che niente sarà più come prima. Ma la solitudine da Covid-19 ha un aspetto del tutto innovativo perché nasce non dall’abbandono, ma dall’impossibilità di farsi carico delle persone nel modo in cui loro vorrebbero e a cui avrebbero diritto. Una solitudine non voluta, non cercata, non desiderata, imposta da circostanze con cui si fa fatica a misurarsi, senza provare un dolore, appena mitigato dalla paura.

Dalla paura del contagio per sé e per altre persone care. Il timore di fare del male alle persone care, di comprometterne la salute, sia che si tratti di persone anziane: i nonni, i genitori, o di bambini più piccoli, ha una potenza motivazionale che supera quella delle multe e delle eventuali contravvenzioni.

L’epidemia connessa con la diffusione del Covid-19 ha un forte impatto su molti aspetti della convivenza tra le persone e richiede una riflessione attenta sui diversi vissuti, cercando di cogliere sempre la prospettiva relazionale. La solitudine non si addice all’uomo, tanto più nei momenti di maggiore dolore e sofferenza, dove inevitabilmente è proprio la solitudine che provoca la morte, perché l’uomo smette di desiderare la vita e smette di lottare per la sua stessa vita. Ha la sensazione che la sua vita non interessi più agli altri, li percepisce come estranei, assorbiti più dal bisogno di auto-proteggersi che da quello di prendersi cura dell’altro, magari malato, in ospedale o solo a casa.

Oggi è la solitudine l’ingrediente peggiore di questa epidemia, capace di trasformare la virulenza del Covid-19 in un’arma letale e lo spettro di morire soli, di non poter avere un funerale, di non poter neppure avere una degna sepoltura è tra le nuove angosce dell’uomo contemporaneo al tempo del coronavirus.

Abbiamo sentito tante testimonianze in televisione di familiari che tra le lacrime hanno ammesso la disperazione di aver visto andar via in autoambulanza una persona cara e non averla più potuto abbracciare. L’hanno vista da lontano, chiusa in una bara, perché anche la prossimità al cadavere diventava una potente fonte di contagio e quindi andava evitata. Con il dispiacere condiviso in tutta la famiglia, vicina e lontana, di non aver potuto neppure far celebrare il funerale.

Quel morire senza i sacramenti, senza neppure l’unzione degli infermi prima e senza funerale dopo, appare un vulnus difficilmente accettabile in una famiglia dalle solide radici cristiane.  Sembra una sofferenza che si somma alle altre sofferenze, in una tristezza a cui non bastano come consolazione neppure le facili rassicurazioni degli avvisi parrocchiali. Si soffre e basta, di una solitudine che è separazione per sempre, senza aver avuto l’occasione di parlarsi, di chiarire forse piccole tensioni o più semplicemente di aver potuto dire grazie per tanto affetto ricevuto.

Sappiamo, abbiamo visto in tv,  che molte di queste bare sono state caricate sui camion dell’esercito e portate a forni crematori diversi da quelli della propria città, perché questa aveva saturato la sua disponibilità. Neppure questa piccola consolazione in un tempo così difficile, in cui non c’è nulla che si desideri più di un abbraccio e non c’è nulla di più proibito dell’abbraccio stesso. Una solitudine che impone un distacco impensabile fino a pochi giorni fa, una sorta di dis-umanizzazione tecnicamente evoluta, burocraticamente efficiente, ma del tutto priva di quella carica affettiva che nella vita fa la differenza anche nei momenti difficili. Eppure non c’è nessuna indifferenza; da parte di nessuno! solo un immenso dolore da parte di tutti.

A dieci anni dall’approvazione della legge 38 nessuno avrebbe previsto questa tragedia così profondamente umana. Giuseppe Casale, Direttore di Antea, una delle reti di cure palliative più antiche e più efficaci che ci sono a Roma, raccontava il dolore di dover tenere lontane dai propri familiari le persone ospitate nel suo Hospice. Pericoloso per entrambi, nonché per l’intera struttura, il contatto ravvicinato con persone che vengono da fuori, per accurate che siano le misure di prevenzione. Uno dei centri di eccellenza da cui si irradiano le cure palliative per tutta la città, con una assistenza domiciliare capace di compiere il piccolo miracolo di allungare la vita ai suoi pazienti: così ben accuditi, così ben accompagnati, da voler spremere dalla vita tutto il bene che ancora può dar loro.

Eppure anche loro oggi sono entrati nel circuito del coronavirus e delle misure di contrasto all’epidemia, tutte finora riconducibili ad unico parametro efficace: l’isolamento; la distanza fisica che rischia di essere percepita dalle persone più fragili anche come distanza affettiva. Per i soggetti che sono in Hospice non vedere le persone care, rallentare i contatti vitali,  stravolge profondamente la stessa filosofia della legge 38, per cui l’accompagnamento del paziente, la prossimità della famiglia sono elementi strutturali dell’intera impalcatura della legge.

Oggi, dieci anni dopo, contempliamo una situazione del tutto mutata e il malato tende a rifiutare l’hospice a favore dell’assistenza domiciliare, per non perdere il contato umano con la famiglia, il suo filo di Arianna per orientarsi nel labirinto delle sue paure. Ma anche l’assistenza domiciliare in questi casi si fa più difficile e più complessa. E tutti noi ci scopriamo più smarriti.

Non è solo il SSN che oscilla tra l’impegno eroico del personale medico-infermieristico e il senso di impotenza davanti al numero dei morti: i 700 di ieri sono l’ennesimo macigno nel cuore di tutti noi! Si pone come non mai il problema del rapporto tra uomo e natura, cercando di assumere una posizione positivamente realista; siamo sollecitati a prendere atto, al di là di certe ideologie ambientaliste, che la natura senza il governo dell’uomo può  produrre anche disastri e una natura solo buona e originariamente incontaminata non esiste.

Ma si pone anche il problema della partecipazione di tutti al bene comune, attraverso una solidarietà creativa, che ci aiuti a risolvere i problemi sulla base del principio di sussidiarietà, sollecitando la politica a dare soluzione a questo grave problema, puntando non solo alla ricostruzione della normalità quando sarà passato, ma alla costruzione di un sistema più articolato, in cui la prevenzione sia considerata come uno dei fattori di rischio abituali e gestita attraverso interventi convergenti e coordinati, secondo la logica di un pensiero anticipatorio, capace di prevedere anche l’imprevedibile. Questa epidemia terminerà, prima o poi, ma certamente ce ne saranno di nuove negli anni a venire.

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