Gli studi sull’emergenza globale scatenata dalla pandemia di Covid-19 stanno dando risultati importanti. E anche l’Italia gioca un ruolo non secondario nel tentativo di sciogliere alcuni misteri. Per esempio: perché il Covid 19 colpisce molte persone manifestandosi con sintomi leggeri e in altre invece l’infezione assume forme gravi? Una risposta arriva ora dalla genetica: il problema sembra infatti dipendere da una ridotta funzionalità dell’interferone di tipo I, un mattoncino decisivo nella risposta immunitaria al virus. Un passo avanti che potrebbe avere ricadute rilevanti sul fronte della prevenzione, aiutando a identificare le persone a rischio, e delle terapie.
Il merito della scoperta spetta a un doppio studio, pubblicato in due articoli sulla rivista Science, che ha visto impegnato un consorzio internazionale di ricerca cui partecipano più di 50 centri di sequenziamento e centinaia di ospedali di tutto il mondo, tra cui appunto l’Italia. Come spiega uno dei membri del comitato direttivo del consorzio Covid Human Genetic Effort (CovidHge), il professor Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) e professore ordinario di Pediatria all’Università Vita-Salute San Raffaele, “questa collaborazione rappresenta un aspetto molto positivo della ricerca sul Covid-19, perché ha visto mettere insieme tante risorse, scienziati e medici di tutto il mondo. In Italia, insieme al San Raffaele, hanno lavorato diversi centri, come il Laboratorio di Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata, l’università di Brescia, di Monza. E va citato il contributo importante del professor Luigi Notarangelo, uno scienziato italiano che lavora da tanti anni in America”. In base allo studio, in pratica, si è scoperto che il 15% delle forme gravi di Covid-19 dipende da cause genetiche e immunologhe, legate ad auto anti-corpi che funzionano male e a malattie genetiche.
Il vostro studio ha individuato due percentuali diverse di pazienti gravemente colpiti dal virus. Di cosa si tratta?
Circa il 10% dei pazienti sviluppano una ridotta funzionalità dell’interferone di tipo I, che sarebbe la proteina che aiuta a regolare l’attività del sistema immunitario. In sostanza, questi pazienti, quando vengono a contatto con il virus, risultano più suscettibili all’infezione, perché, pur producendo l’interferone I, hanno in circolo auto anti-corpi che lo bloccano. Alla base di questo c’è un meccanismo sbagliato nel funzionamento del sistema immunitario: viene cioè a mancare uno dei baluardi contro il virus.
L’altro gruppo di pazienti invece?
Un altro 3,5% dei pazienti che abbiamo esaminato attraverso analisi genetiche presentano mutazioni genetiche verosimilmente ereditarie. Normalmente in un individuo questa malattia genetica non si manifesta mai se non quando viene a contatto con un virus. Eravamo a conoscenza di casi simili colpiti dal virus dell’influenza. Il fattore comune che lega i due tipi di pazienti esaminati sta nel meccanismo di risposta delle cellule al virus e nella produzione dell’interferone I.
La differenza?
Nei primi soggetti l’interferone viene prodotto ma è bloccato dagli auto anti-corpi; nei secondi, l’interferone o non viene prodotto oppure non può funzionare, perché mancano i meccanismi di trasmissione del segnale.
Questo studio permette di capire perché la maggior parte delle vittime del Covid sono soggetti maschi e di età avanzata?
Il nostro studio non risponde a queste domande, conferma però che ci può essere maggiore suscettibilità negli uomini, perché questi anticorpi sono stati trovati più frequentemente negli uomini anziani. Il meccanismo però non è stato individuato. Potrebbe essere legato al cromosoma X o ad altro. Ancora non lo sappiamo, questo è il primo passo, che va al di là del fatto che una persona anziana potrebbe avere altre patologie che predispongono a un maggior rischio.
Lo studio aiuterà a trovare soluzioni terapeutiche per gruppi specifici di pazienti? O il vaccino resta comunque l’obiettivo primario?
Stiamo parlando sempre di terapie con farmaci già esistenti come l’interferone Beta. Sono già in corso sperimentazioni cliniche e al San Raffaele cominceremo fra poco. Al momento, guardando ai prossimi mesi, bisogna puntare sul vaccino. In futuro, però, si potranno sicuramente individuare altri farmaci.