Era il 19 febbraio 2021 e le agenzie battevano l’ennesima notizia legata al Sars-Cov-2: una nuova variante dal Giappone. La notizia, allora passata in sordina, affiora con una certa forza nelle ultime ore e preoccupa la comunità scientifica. Perché?

Partiamo dal principio. A metà anni 90 del secolo scorso non furono pochi gli studi che mettevano al centro il problema per eccellenza: l’aumento quasi esponenziale della popolazione mondiale. Questo processo porta in dote una serie di cambiamenti drastici a livello ambientale e una certa dose di promiscuità tra natura e attività antropica. Nascono città dove non devono sorgere, specie rare si estinguono o si adattano in pochi anni. È un fatto nuovo. Pensiamo al morbillo o alla peste bovina, che impiegò secoli a fare il salto di specie e poi a diffondersi: un mondo poco globalizzato aiutò. Ma il disastro del 2020 nasce anche da altro. L’errore di fondo l’anno scorso è stato banale: arrivare in ritardo.



Da qui balziamo al 2003 e pensiamo alla gestione della Sars. Fu il nostro Carlo Urbani a capire prima di tutti quanto fosse pericoloso il virus, il mondo s’attrezzò per tempo e la diffusione di fatto fu bloccata. Parliamo di Sars, ovvero di Sars-Cov-1, ovvero di un virus quasi speculare al Sars-Cov-2, il Covid-19 che tanto ci ha modificato lo stile di vita e l’approccio al futuro.



Nel 2003 in molti ambienti non furono escluse misure non tanto dissimili da quelle odierne, ma fu tutto scongiurato grazie alla prontezza di riflessi di molte persone di allora. La Cina fu subito messa all’angolo e gli Usa di Bush Jr vollero vederci chiaro, nonostante fossero impegnati in Iraq. L’Europa non impiegò molto ad accodarsi. I media descrissero la malattia senza fronzoli, giudicandola pericolosa e la comunità scientifica compatta fece capire che bisognava giocare di anticipo. La maggioranza della popolazione non colse nemmeno esattamente cosa stesse accadendo. Urbani con il suo appello di fatto sensibilizzò i decisori occidentali, che non si fecero pregare per intervenire drasticamente.



La Cina nel 2003 fu costretta a collaborare; nel 2020 fu invece Pechino a condizionare l’Oms. Oltre a ciò, mentre il virus era classificato come “coronavirus 2 da sindrome respiratoria acuta grave”, in Occidente si parlava d’influenza. Una strategia pessima, ma funzionale alla potenza cinese, paese in cui l’approccio al virus non contempla opposizione. I vertici di Pechino conoscono molto bene il problema del relativismo che negli ultimi 25 anni ha messo in crisi il sistema occidentale e lo hanno perforato.

Le spacconate di Donald Trump non hanno aiutato. Gli Usa, invece di chiudersi a riccio come nel 2003 e invitare la Nato a fare altrettanto, hanno cavalcato una campagna di minimizzazione che ha portato al risultato che il Dragone si era prefissato: destabilizzare il modello economico occidentale. La Russia ha reagito al solito modo: un vaccino in breve tempo e blindatura informativa. I dati cinesi e russi? Una chimera. Qualcuno ha provato ad imitare, la Germania ad esempio, ma il risultato è stato pessimo, perché il modello cinese non è applicabile alle democrazie, che sono uscite con le ossa rotte, anche a causa della miopia di Trump.

L’Occidente, ad oggi, soffre il soft power cinese, meno quello russo. L’informazione eterodiretta non scalfisce Pechino, dove i social sono sotto controllo, ma destabilizza chi mette al centro la libertà di pensiero.

Nel 2020 è mancato il coraggio. Lo si è visto anche in Italia, paese che non ha avuto gli attributi per chiudere i confini con la Cina alle prime avvisaglie. Non per nulla in piena pandemia (era già scoppiata, ma la Cina fece perdere un ulteriore mese, tutto febbraio) noi avevamo sul suolo nazionale turisti cinesi (poi finiti allo Spallanzani positivi dopo aver attraversato mezzo paese).

Tutta l’Europa ha reagito da sconfitta in partenza, ma è mancato l’alleato naturale: gli Usa. Trump ha alzato la tensione mediatica, ma nel frattempo la Us Navy faticava a stare dietro ai cinesi nel Pacifico. Il resto lo ha fatto la Bank of China, che ha stampato perfino denaro virtuale per supportare l’economia cinese. Gli Usa già con Trump hanno seguito la stessa strada, l’Europa invece è alle prese con il Recovery Fund, uno strumento lento e fumoso: serve liquidità immediata o il tessuto economico in paesi come il nostro salta, perché le nostre aziende medie e piccole non possono competere con le multinazionali.

Nel 2003 fu un medico italiano a mettere in guardia il mondo, Carlo Urbani, che perse la vita proprio studiando la Sars in Vietnam. La Cina era a conoscenza del virus dal 2002, ma a quei tempi gli scambi con il Dragone erano più limitati all’Asia, oggi invece non si contano i voli diretti. Fu il Canada a dare l’allarme per primo in Occidente, con informazioni dettagliate, seguito dagli Usa, che furono chiari con i cinesi: trasparenza.

Nel 2020 non ci sono stati Paesi o scienziati in Occidente che hanno parlato chiaramente di Sars. La cattiva informazione (indotta) ha creato dei cavalli di Troia in ogni Stato occidentale, che si trova alle prese con una popolazione esausta psicologicamente, ma inconsapevolmente immersa in un contesto che in realtà è denso di pericoli.

Sono saltati gli equilibri internazionali e lo fa comprendere perfino il Giappone nel momento in cui, per non compromettere le Olimpiadi, si comporta come Pechino, ovvero minimizzando l’ultima variante scoperta in loco ancora a gennaio.

L’Occidente ha due possibilità: o restare in balia degli eventi e inseguire il virus, o uscire dai propri vincoli economici (soprattutto l’Europa) e cercare nella velocità vaccinale una ripresa economica che capovolga lo scenario. Non per nulla Joe Biden ha ordinato un contenimento militare nel Pacifico, muovendo l’intera flotta Usa: un avvertimento a Pechino che è rivolto anche a noi.

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