I tragici avvenimenti dell’Ucraina stanno convogliando, e crediamo sia necessario, tutto l’interesse dei media (e non solo) sulle molte emergenze che ne conseguono: morti, distruzioni, migrazioni forzate, e quant’altro sta succedendo lì, ma anche nei paesi, come il nostro, che stanno cercando di accogliere i profughi in fuga.



Dello sforzo di accoglienza umanitaria fa parte anche l’affronto delle tematiche sanitarie, non solo per il governo, il controllo e il monitoraggio del virus Sars-Cov-2 in queste popolazioni, la cui copertura vaccinale è molto lontana dall’essere ottimale, ma anche perché dell’elevato volume numerico di cittadini che si muovono fanno parte anche soggetti portatori di diverse patologie che necessitano di essere prese in carico dal Servizio sanitario nazionale. Non fuggono dall’Ucraina solo i sani: ci sono già diversi segnali, soprattutto nei luoghi dove l’accoglienza è numericamente maggiore, che tra i migranti sono presenti persone malate che necessitano di cure e delle quali è d’obbligo farsi carico. Lo sanno bene le persone delle Asl e degli ospedali, che oltre ad organizzare l’ospitalità e la filiera delle attività per il percorso vaccinale si stanno preoccupando di prendersi adeguatamente cura sia dei soggetti sani (ad esempio, per l’assegnazione di un medico di base e/o di un pediatra) che di quelli già affetti da patologie di vario tipo o comunque bisognosi di attività sanitarie e socio-sanitarie.



E’ inevitabile, ma non per questo giustificabile, che si corra il rischio di dimenticarci (e spesso, purtroppo, di volerci coscientemente dimenticare) che da più di due anni siamo in balìa di un’altra ben nota emergenza. Il detto popolare “chiodo scaccia chiodo”, però, non è una buona ragione né per mettere a contrasto tra di loro le diverse emergenze (ad esempio, evidenziandone l’importanza relativa) e neppure per far finta che la pandemia di Sars-Cov-2 sia ormai alle spalle. Sono proprio di questi giorni le poco rassicuranti avvisaglie che la battaglia contro il virus non è per nulla finita: il virus c’è ancora, e si vede!



Proviamo a fare il punto della situazione. L’ultima ondata di infezioni era in evidente regressione e questo ci ha portato a ragionare come se la pandemia fosse al termine: aperture, commenti rassicuranti, riduzione delle precauzioni, ritorno delle attività in presenza, prospettive di eliminazione del green pass e via discorrendo, all’insegna di un Rt (indice di diffusione) in netta discesa, di ospedali che stavano svuotando sia i letti dei reparti di terapia intensiva che degli altri letti legati al Covid, chiusura degli hub vaccinali per diminuzione delle richieste di vaccinazione.

Evviva, l’epidemia si stava esaurendo, almeno così sembrava, anche se continuava a rimanere accesa una piccola fiammella di sospettosa attenzione: decine e decine di decessi attribuibili al virus continuavano a verificarsi ogni giorno, ma il loro confronto con le centinaia o migliaia che si registravano prima ci hanno quasi abituato a pensare che, in fondo in fondo, qualche morto in più (in realtà parecchie decine o anche un centinaio) si poteva accettare, visto che in fin dei conti si trattava o di soggetti anziani, fragili, pluripatologici e che forse sarebbero deceduti lo stesso, anche se magari più tardi, oppure di soggetti non vaccinati.

E invece no. Il virus rialza la testa, e non solo da noi: se guardiamo alla Gran Bretagna, con tutta la prudenza di giudizio e le cautele che richiede il confronto con quello che è successo e succede ora in un nazione che è differente dall’Italia per tante caratteristiche e che oltretutto ha scelto un affronto della pandemia del tutto diverso da quello adottato nel nostro paese, ma che nonostante ciò ha dimostrato di anticipare per molti aspetti quello che poi si è verificato nei nostri territori, le prospettive nostrane non si presentano buone. I dati di questi giorni ci dicono che la frequenza di infezioni è in deciso aumento (è ancora da valutare se sia in aumento anche la sua gravità, ma questo lo potremo verificare solo tra un po’): da una parte, nonostante la quota di persone vaccinate sia molto elevata (a proposito: qualcuno ha notizia della famosa “immunità di gregge” che ci avrebbe protetti dal virus?) rimangono sacche numericamente importanti di soggetti non vaccinati o non vaccinabili (vedi il caso dei giovanissimi); dall’altra, le nostre conoscenze delle caratteristiche di questo virus (e soprattutto delle modalità della sua diffusione) continuano ad essere insoddisfacenti (quanti soggetti infettati, anche più di una volta, continuano a chiedersi dove hanno preso il virus), senza contare che le “armi di difesa” (forse si dovrebbero usare termini più adeguati considerato il momento che stiamo vivendo) a nostra disposizione appaiono deboli e spuntate.

Questione di pessimismo? No, per lo meno da parte di chi scrive, abituato a confrontarsi con le domande che la realtà ci pone e a guardare con occhio attento, ma anche critico le notizie diffuse da chi possiede le informazioni: già troppe volte le nostre supposte certezze, le nostre previsioni, le nostre speranze hanno sbattuto malamente il muso contro i comportamenti di questo, ancora per troppi aspetti strano, virus.

E allora, visto che il virus inequivocabilmente c’è e che, con buona pace dei “terrapiattisti”, la terra continua ad essere rotonda e a ruotare intorno al proprio asse, che fare? Nonostante tutto, non ci resta che affidarci ai poveri strumenti che abbiamo: insistere con le vaccinazioni (nella speranza che la scienza ci sappia offrire nel più breve tempo possibile qualcosa di meglio rispetto ai vaccini che oggi abbiamo in dotazione), migliorare i nostri comportamenti in ottica di prevenzione (mascherine, distanziamento, disinfezione, …), e confidare che anche l’avvento della bella stagione ci dia una mano.

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