Aymane, 15 anni, di Bondy, poco più di 53mila anime, pochi chilometri a nord-est di Parigi. Altri due ragazzi, entrambi di 14 anni (i nomi sono stati tenuti riservati), dell’Essonne, altro dipartimento dell’Ile de France, la regione parigina. Tutti morti l’altra settimana, il primo raggiunto da un colpo di pistola, gli altri da coltellate fatali, sempre durante furibonde risse tra ragazzini di bande rivali, in libera uscita durante le due settimane di vacanze scolastiche di fine inverno. “Non sorprende che i problemi più gravi avvengano durante le vacanze scolastiche, perché i giovani sono soli, soprattutto in questo periodo con la chiusura di società sportive e di alcuni centri giovanili”, ha detto a France24 Yazid Kherfi, un ex rapinatore divenuto consulente in prevenzione urbana. “Nei quartieri, di notte, non c’è nulla di aperto, un vuoto accentuato dal coprifuoco. Io stesso non posso incontrare questi giovani, a causa dei divieti legati al Covid-19”.



La situazione in Francia è preoccupante: gli scontri urbani sono in aumento del 25%, tanto da spingere i ministri dell’Interno, della Giustizia e dell’Istruzione a decretare, dal 1° marzo, la mobilitazione generale del governo contro il fenomeno delle lotte tra le bande di giovani (ne sono state già censite 75, la maggior parte con base nei distretti adiacenti a Parigi, Seine-Saint-Denis, Val-de-Marne e Hauts-de-Seine).



Situazione simile, ma in un certo senso più ascrivibile a fenomeni malavitosi, per Barcellona, dove i Mossos (la polizia catalana) denunciano l’accentuarsi della violenza delle bande giovanili, e rispondono con la creazione di speciali corpi di intervento e di indagine.

Ancora diverso il panorama di Berlino, con frequenti scontri di gruppi di manifestanti con le forze dell’ordine, guerriglie motivate soprattutto in protesta alle restrizioni anti-Covid, così come accade ad Amsterdam.

Fortissime tensioni a Bruxelles, con violente battaglie tra centinaia di giovani e la polizia, dopo la misteriosa morte del ventitreenne Ibrahima, mentre era agli arresti, in custodia al commissariato (era accusato di avere filmato con lo smartphone un intervento degli agenti): incendiata la caserma e colpita anche l’auto del re Filippo, che transitava ignorando che la targa del suo mezzo (“numero 1”) rivelava candidamente l’identità dell’illustre passeggero.

Anche in Italia va male: il panorama è ancora più desolante di quello francese, con le maxi-risse tra giovani, spesso anche giovanissimi, che esplodono ovunque soprattutto nei fine settimana. Due settimane fa Romeo, un ragazzo di 17 anni, ha perso la vita accoltellato durante una rissa a Formia. Hanno acceso molti riflettori anche gli scontri romani, tra Pincio, piazza del Popolo, Villa Borghese, o quelli milanesi, tra baby gang (appena bloccata quella di via Solari) e bande dai nomi evocativi (censite da Piero Colaprico: gli ecuadoregni Latin King New York e Latin King Chicago, i Comando peruviani, i Nietas, i domenicani Trinitarios, i temibili Salvatrucha, salvadoregni, i filippini di Ghetto, e poi gli italiani). In Lombardia risse anche a Gallarate o Brescia. Ma si stanno registrando fenomeni simili a Venezia (la guerriglia di Rialto), a Padova (sigillata l’isola Memmia di Prato della Valle per evitare nuovi scontri), Rimini (minorenni armati di coltello), Pesaro, Genova, Santa Margherita Ligure (due giorni di fuoco), Nichelino nella periferia torinese, e ancora a Napoli, sul lungomare. La lista potrebbe proseguire, a coprire praticamente tutto lo Stivale, al contrario della Francia, dove i fenomeni sono ben localizzati nelle regioni parigine: ovviamente, l’Italia ha più o meno la stessa popolazione della Francia, ma spalmata su un territorio con la metà di chilometri quadrati a disposizione.

Cosa sta succedendo? Il Covid ha accentuato fenomeni carsici che adesso hanno trovato percorsi più evidenti di emersione, amplificati da intere zone urbane abbandonate dalle tante serrande abbassate di negozi sfiancati dalla pandemia, da bar e ristoranti in coprifuoco e via dicendo.

Thomas Sauvadet, il sociologo autore di “La capitale guerriera, competizione e solidarietà tra i giovani delle città”, sostiene che “circa il 10% dei giovani sotto i 30 anni che vivono in un quartiere difficile della città appartiene a una banda. Queste bande sono composte da giovani che si conoscono fin da piccoli. Nell’adolescenza accumulano difficoltà a scuola, problemi di inserimento professionale, con conflitti familiari. Si uniscono per sentirsi più forti e si trovano in situazioni di conflitto con coloro che li circondano, compresi gli assistenti sociali”. Si tratta di gruppi che covano asti, spesso inconsistenti, attraverso i social network. “Si uniscono per darsi un’identità e proteggersi, vivono in una grande insicurezza sociale, perché spesso provengono da famiglie precarie. Ma anche insicurezza tra loro, perché con i social si moltiplicano minacce e passaggi all’atto”, osserva Kherfi. “E gli insulti a distanza, sui social media, finiscono per materializzarsi nella violenza sulle strade pubbliche il giorno in cui si trovano faccia a faccia”.

Ma i social hanno contribuito ad accelerare un fenomeno che aveva già iniziato a diffondersi da tempo. “La cultura delle gang, ispirata dagli Stati Uniti – aggiunge Sauvadet -, è diventata mainstream. È stata persino rilevata da multinazionali, come un famoso marchio sportivo, che si è ispirato per vendere una linea di abbigliamento ai giovani. È la banalizzazione di questa cultura della banda violenta da parte di rapper e influencer, con codici gestuali e di abbigliamento”.

“Sono molti i fattori che entrano in campo a spiegare da dove nasce tutta questa violenza – chiarisce Michela Gatta, referente del gruppo di lavoro e ricerca di Neuropsichiatria infantile di Padova, come riporta IlBoLive dell’Università -. Lasciamo in questo caso da parte le condizioni dell’ambito clinico caratterizzate da fragilità narcisistica patologica, discontrollo degli impulsi, tendenze antisociali. Di frequente, connesse a quanto si esprime come violenza, è possibile rinvenire rabbia da frustrazione (sono tante le ragioni per cui i ragazzi oggi si sentono frustrati), noia (intesa come stato emotivo spiacevole piuttosto che come anestesia emotiva o ideativa), moda. Questa ultima sembra forse meno associabile alla violenza, ma se pensiamo per esempio alla musica quale dimensione che impregna la fase adolescenziale, possiamo verificare l’attualità del genere trap che di fatto inneggia alla violenza con testi cupi e minacciosi, i cui temi tipici di vita di strada tra criminalità e disagio, povertà e droga, si sono diffusi quale cultura giovanile”.

In questa lunga anamnesi, le cause sono complesse e a volte di difficile distinzione: dunque l’emulazione (si è parlato tanto anche dell’effetto Gomorra); ma certamente l’attrezzatura culturale, scarsa o mancante; la velocità di propagazione dei messaggi attraverso i social; il narcisismo (non c’è rissa che non venga filmata al telefonino e immediatamente postata); la mancanza di altre valvole di sfogo (socialità azzerata anche sulle curve ultrà degli stadi). “Risse e baby gang sono fenomeni pre-Covid – precisa la professoressa Gatta -. Forse ora è possibile leggerci anche un messaggio sociale di presa di posizione di fronte a limiti percepiti come imposti e magari ingiusti. Molti ragazzi – ma anche tanti adulti – attivano comportamenti contrastanti rispetto alle attuali norme preventive e, in generale, rispetto alla realtà che stiamo vivendo da circa un anno. Negare l’evidenza, attuando comportamenti rissosi all’insegna della forza e prevaricazione, può anche costituire una forma difensiva nei confronti di una condizione che causa angoscia, frustrazione e senso di impotenza”.

La cura è di difficile definizione. I cerotti più immediati sono il presidio dei territori, la chiusura delle zone più a rischio (ma è facile immaginare lo spostamento dei ring urbani in piazze alternative), la deterrenza data dal visibile potenziamento delle forze di polizia, la certezza delle pene conseguenti alla violenza. Ma si tratta, appunto, di misure da pronto soccorso.

Per cure più efficaci, e a lunga durata, bisognerebbe investire nella protezione sociale dei giovani in difficoltà, nella formazione di educatori specializzati nella prevenzione, e non solo nelle scuole (dove andrebbe accuratamente monitorato l’assenteismo), ma nelle strade (anche con i mediatori di quartiere). Tutto questo richiede risorse e pianificazione, ma mancano entrambe, e in questi periodi particolarmente difficili, con i distanziamenti sociali, le scuole chiuse, i consueti punti d’incontro messi off-limits, le frustrazioni tendono inevitabilmente a diventare rabbia.

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