Il consultorio La Famiglia di via Arese a Milano esiste dal 1977. Una realtà di volontariato, cresciuta negli anni, come racconta il presidente Stefano Portioli, “che si è arricchita di persone che hanno preso a cuore questo impegno, portandolo avanti stando vicini alle persone, cercando di testimoniare un modo diverso di stare insieme. E questo è molto apprezzato”. Al consultorio “accogliamo tutti, chi si rivolge a noi ha un bisogno. Ci sono situazioni con madre, padre e figlio seguiti, ciascuno di loro, da uno psicologo diverso. Ci sono casi estremi, che non cito per rispetto della privacy, ma le situazioni di disagio sono molte e gravi. Persone con esperienze particolari, che ci dicono di essere venute da noi con molta prevenzione, eppure si sono sentite accolte: stranieri, islamici, cinesi.



A certe mamme dobbiamo insegnare a cantare la ninna nanna al bambino, perché evidentemente è mancato loro un rapporto educativo generazionale: dove sono le mamme e le nonne di queste donne?”. Anche il consultorio ha dovuto ovviamente affrontare l’emergenza pandemia, ma “dopo un primo momento di difficoltà abbiamo accettato la sfida.



Ci siamo detti: noi siamo altro, non siamo questo virus. Tutti, anche gli operatori, si sono messi in questa ottica, tutti hanno detto andiamo avanti, il Covid non ci definisce. Siamo sopravvissuti anche alle difficoltà economiche. Qui si diventa ricchi non di soldi, ma di umanità, qui dentro c’è il mio cuore”.

Come avete vissuto questo anno di emergenza? Nella prima fase siete stati obbligati a chiudere?

In realtà no, come quasi tutti i consultori siamo rimasti aperti. Quando i bambini nascono, non è che possono aspettare perché c’è un virus, le mamme andavano seguite comunque. Abbiamo messo in atto tutte le sicurezze richieste: protocolli, regole, vietato l’ingresso agli accompagnatori, distanziati gli ingressi per evitare affollamenti. La parte ambulatoriale è rimasta aperta. Quello che abbiamo dovuto chiudere è stata la parte dei gruppi.



Sarebbe?

C’erano giorni in cui il consultorio era affollato di bambini con le mamme, e a volte anche con i papà. Abbiamo dovuto vietarlo ed è stata una decisione molto dura e sofferta. Poi un giorno una nostra ostetrica mi dice: ho fatto un colloquio via Skype, secondo te ce lo pagano? Mi si è aperto un mondo.

Cosa è accaduto?

Ho chiamato la presidente dell’Associazione consultori di ispirazione cattolica, di cui facciamo parte, che mi ha detto: figurati se pagano. Sono comunque voluto andare a fondo della questione e una settimana dopo il direttore generale della sanità, in uno dei suoi tanti cosiddetti editti, ha comunicato che le prestazioni dei consultori potevano essere prestate anche in videoconferenza. Così siamo partiti a organizzare incontri singoli o di gruppo in videoconferenza, anche corsi pre-parto. Ci siamo attrezzati con tutto ciò che serviva, a spese nostre ovviamente, per seguire le mamme dal punto di vista ginecologico e ostetrico in consultorio, mentre con l’assistenza psicologica, dopo averla chiusa, abbiamo ripreso rispettando il distanziamento e quanto occorreva laddove lo psicologo avesse ritenuto che un colloquio non poteva essere fatto in video a distanza.

Questo perché?

La valutazione di tipo clinico è la cosa che abbiamo sempre messo avanti a tutto. Se il colloquio doveva avvenire in presenza, abbiamo consentito che accadesse, ma era sempre un colloquio tra due che si guardano con una mascherina. Fino a quando qualcuno non ha detto che a farlo in video comunque c’erano degli aspetti positivi.

Quali?

Attraverso il video riesci a vedere il luogo dove questa persona vive e addirittura qualche volta alcuni hanno portato in giro per la casa la videocamera per mostrare tutta l’abitazione.

Un aspetto importante.

E’ un elemento in più per capire alcuni problemi della persona.

Continuate con questo metodo anche adesso?

Sarà difficile tornare indietro nei prossimi mesi, comunque mi batterò perché questa possibilità rimanga, è un modo per allargare gli spazi del consultorio.

E le persone che seguite che reazione hanno avuto?

Non ho mai ricevuto tanti messaggi di plauso e di ringraziamento come in questi mesi, da persone che dicono: se non c’eravate voi, non avremmo saputo come fare. La gente ha sofferto la situazione di chiusura, ma ha trovato un punto di ancoraggio, in cui si sono sentiti ascoltati nel loro bisogno e consigliati.

Voi lavorate anche nelle scuole, giusto?

Sì, anche se abbiamo dovuto ridurre quell’attività.

Perché?

Non abbiamo ritenuto, soprattutto per le superiori, che determinati argomenti potessero essere trattati tramite video, e parlo dell’educazione sessuale e affettiva. Laddove si è potuto intervenire, come nelle quinte elementari, siamo andati avanti; per le superiori adesso valuteremo cosa fare.

Quale motivazione ha interrotto il lavoro con i ragazzi delle superiori?

Un motivo risiede nel fatto che i nostri psicologi ritengono che, dovendo parlare alla classe, anche osservare i ragazzi è importante per dare determinate risposte, e poi per motivi di privacy. Il nostro metodo si basa su domande singole, poste in modo riservato e anonimo, dopo di che vengono messe insieme e si danno le risposte più nette e chiare possibili. Questo metodo è molto apprezzato, tanto che lavoriamo in molte scuole statali, dove la nostra presenza è molto richiesta. Prima della pandemia noi incontravamo circa 2.600 ragazzi nelle scuole con circa 9mila prestazioni. Con la pandemia i nuovi accessi sono scesi a 1.600.

(Paolo Vites)

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