Qualcuno ricorderà che l’Oms, in concomitanza con lo scoppiare della pandemia da Covid-19, metteva in guardia il mondo sull’esistenza di una parallela “infodemia”, termine con cui si faceva riferimento alle teorie cospirative e complottistiche circa l’origine del virus. Adesso un’indagine condotta dall’Associated Press in collaborazione con il Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council ha ricostruito nel dettaglio la genesi e l’evoluzione di una delle più popolari fake news in materia di Coronavirus, ossia l’idea che si tratti di un agente patogeno creato appositamente in laboratorio.



L’analisi è stata realizzata ponendo sotto la lente d’ingrandimento milioni di post e articoli e diffusi sui social media e in particolare su Twitter, Facebook, VK, Weibo, WeChat, YouTube, Telegram e altre piattaforme. L’innesco è avvenuto agli albori del contagio, ossia il 26 gennaio 2020, giorno in cui un utente dell’app cinese Kuaishou, abitante nella Mongolia interna, ha postato un video in cui si sosteneva che il nuovo virus che stava investendo la regione dello Hubei sarebbe stato in realtà un’arma biologica creata dagli americani. Prima che la app lo cancellasse e l’uomo venisse tratto in arresto, il video è stato visualizzato 14mila volte. Qualche giorno dopo il People’s Daily diede la notizia mostrando l’immagine dell’uomo ammanettato e legato a una sedia: un chiaro monito per il popolo cinese a non indulgere in congetture fantasiose proprio nel momento in cui l’emergenza stava raggiungendo il suo culmine.



Nel frattempo, all’altro capo del mondo, la leadership cinese finiva oggetto di critiche serrate con l’accusa di non essere stata trasparente nella fase incipiente della pandemia; critiche rafforzate dalla storia di Li Wenliang, il medico cinese punito dal Partito per aver lanciato l’allarme sul Covid di cui poi sarebbe morto. È questo il momento in cui negli Usa prende corpo una campagna denigratoria finalizzata a mettere in cattiva luce la Cina, con il presidente Trump e numerosi esponenti del Partito repubblicano attivi nell’accreditare una teoria cospirativa gemella per la quale il Covid, ribattezzato il “virus cinese”, era stato ingegnerizzato da scienziati cinesi. L’autorevolezza dei sostenitori della nuova teoria ne favorì la diffusione negli account social pro Trump e del movimento Qanon.



Probabilmente sconcertata per il modo in cui il teorema avesse cambiato di segno e messo la Cina nel centro del mirino, Pechino decise di non rimanere con le mani in mano e fece pubblicare il 22 febbraio dal People’s Daily un articolo che dava voce alla tesi contrapposta che fossero stati i militari Usa a portare il Covid in Cina. E poiché il People’s Daily ha rapporti di collaborazione con testate di tutto il mondo, ecco che la notizia di una responsabilità americana veniva pubblicata tale e quale in giornali come l’Helsinki Times e il New Zealand Herald. Per assicurarsi inoltre la massima diffusione, Pechino non ebbe scrupoli ad appoggiarsi alla famosa rete dei proxy russi specializzati in strategie di disinformazione.

Che fosse stato concordato o meno, il sostegno russo alla campagna cinese beneficiava di un precedente interno: il 20 gennaio il medium dell’esercito russo Zvezda aveva annunciato che l’epidemia in Cina era collegata a un test americano di armi biologiche, chiamando a supporto la testimonianza di un semisconosciuto uomo politico russo, Igor Nikulin. Nei due mesi successivi almeno 70 articoli diffusi in varie lingue dai media pro Cremlino riproposero la teoria di Nikulin che nel frattempo era apparso almeno 18 volte su canali tv russi.

A questo punto l’indagine dell’Associated Press fa un passo indietro e torna al 23 gennaio, giorno in cui la città di Wuhan fu sottoposta al più stringente dei lockdown della storia moderna. 24 ore dopo un professore di legge dell’Università dell’Illinois, Francis Boyle, inviava via mail a 300 contatti un “worldwide alert” in cui faceva per la prima volta il suo ingresso la teoria che il Covid fosse un’arma biologica sviluppata dai cinesi in un laboratorio di Wuhan. Nelle settimane successive Boyle rivisitò più volte la sua supposizione, spingendosi a sostenere che gli scienziati cinesi non avessero prodotto l’arma da soli ma l’avessero prelevata da un laboratorio della North Carolina. Quando poi Boyle viene intervistato dal principe dei cospirazionisti americani, Alex Jones di Infowars, la circolazione della sua teoria conosce una rapida accelerazione e una diffusione a livello mondiale.

In Cina frattanto gli utenti di WeChat discutevano dell’ipotesi che fosse stato l’esercito americano a creare il Sars Cov-2 in un laboratorio di Fort Detrick nel Maryland e che l’avessero rilasciato in Cina durante l’evento Military World Games tenutosi a Wuhan nell’ottobre precedente. Sebbene non sia chiara l’origine di questa nuova versione, essa ebbe modo di approdare sotto forma di richiesta di chiarimenti nel portale della Casa Bianca “We the People” accompagnata da 1.426 firme.

È a questo punto che entra in scena uno dei maggiori protagonisti di questa storia, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian, che un giorno sfoderò dal suo account Twitter una serie di cinguettii con cui si lanciava quello che secondo l’Associated Press può essere considerato come il primo esperimento di disinformazione digitale globale. “Quando è spuntato il paziente zero negli Usa?”, scriveva Zhao; “quante persone sono state infettate? Quali i nomi degli ospedali? Potrebbe essere stato l’esercito americano a portate l’epidemia a Wuhan. Siate trasparenti! Rendete pubblici i vostri dati! Gli Stati Uniti ci devono una spiegazione”.

Con i tweet di Zhao la teoria cospirativa faceva un salto istituzionale in quanto veicolata da un canale ufficiale del regime con centinaia di migliaia di follower. L’offensiva raccolse i suoi frutti: i suoi tweet sono stati citati quasi centomila volte nelle sei settimane successive in almeno 54 lingue. L’Associated Press calcola che i contenuti fatti circolare da Zhao, tra menzioni e retweet, abbiano raggiunto complessivamente 275 milioni di utenti. In supporto di Zhao arrivò presto il Global Times, la versione in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, e almeno 30 account di diplomatici cinesi, dalla Francia a Panama.

Le discussioni in Cina su questo tema si facevano intanto sempre più accese: nonostante Twitter sia bandito nel Paese, l’Ap stima che gli hashtag legati ai tweet di Zhao siano stati visti 314 milioni di volte su Weibo. Non mancarono poi nuovi articoli da parte dei media cinesi: il 22 marzo, ad esempio, China Radio International aggiungeva una sfumatura domandandosi come mai l’Istituto di Ricerca sulle Malattie Infettive di Fort Detrick nel Maryland fosse stato chiuso improvvisamente nel luglio 2019. Nel giro di pochi giorni, versioni del pezzo di China Radio International fecero la loro comparsa almeno 350 volte nei media di Stato non solo in cinese mandarino ma in tutte le altre lingue in cui trasmettono questi organi di informazione.

Le settimane successive furono le più difficili per la Cina, finita nell’occhio del ciclone per la gestione autoritaria delle prime fasi del contagio. È il momento in cui negli Usa si levano voci di un dazio ad hoc e l’Australia domanda ufficialmente un’inchiesta indipendente sulle origini del Coronavirus. Di fronte a queste prese di posizione, Pechino reagiva nel più duro dei modi prendendo di mira in particolare l’Australia nei cui confronti introduceva dazi punitivi. Ma le accuse del resto del mondo non impedirono ai media e ai funzionari cinesi di continuare a promuovere teorie sul virus made in America. Il 16 maggio ad esempio la Tv di stato Cgtn trasmetteva un documentario allusivo su Fort Detrick, che totalizzava parecchie visualizzazioni sia su YouTube sia sulla piattaforma cinese Bilibili. Spostandoci più in là nel tempo, scopriamo che ancora a luglio e ad agosto Zhao riproponeva nella sua timeline Twitter la versione di Fort Detrick.

Si chiude qui la ricostruzione dell’Associated Press e dell’Atlantic Council, un lavoro che mostra come, pur di fronte a un’emergenza globale, non si esiti a strumentalizzare la tragedia per fini politici. Rimbalzando da un canale all’altro, riconfigurandosi secondo le convenienze di chi comunica, notizie non verificate vengono impiegate come armi di propaganda sia per colpire scientemente il nemico sia per distogliere l’attenzione dai veri problemi.

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