Chi abita in città presenta un rischio maggiore di contrarre il Covid-19 rispetto a chi abita in contesti meno urbanizzati? La domanda circola, con risposte non univoche, dal momento stesso in cui è scoppiata la pandemia.
Un contributo ad approfondire l’argomento arriva dalla Lombardia in due forme differenti e in apparenza contrastanti, ma con la prospettiva di gettare le basi per vederci più chiaro.
“Fino ad oggi non è stata dimostrata una netta correlazione tra inquinamento e diffusione del virus, mentre è dimostrato che l’inquinamento presenta riflessi sull’insorgenza di malattie polmonari. Siamo interessati a conoscere tutti i risultati scientifici, ma è evidente che il nesso di causa ed effetto ancora non è emerso”. Così affermava a metà gennaio l’assessore all’Ambiente di Regione Lombardia, Raffaele Cattaneo, nell’anticipare l’avvio in primavera di due distinti studi scientifici sostenuti dalla Regione allo scopo di rispondere in via definitiva al dubbio se Covid 19 e inquinamento vanno di pari passo oppure no.
Negli stessi giorni, una ricerca di Epimed-Centro di Epimediologia e medicina preventiva dell’Università dell’Insubria sembra aver bruciato le tappe, evidenziando un possibile nesso di causa-effetto: “L’inquinamento atmosferico aumenta il rischio di infezione da Sars-CoV-2”. I risultati, pubblicati sulla rivista “Occupational & Environmental Medicine”, del gruppo editoriale Bmj che pubblica l’omonima, prestigiosa rivista medica settimanale del Regno Unito, hanno riguardato uno dei territori meno inquinati della Lombardia.
Lo ha spiegato Giovanni Veronesi, docente di Statistica medica nell’ateneo prealpino e coautore del lavoro: “Abbiamo seguito prospetticamente nel tempo ogni adulto residente nella città di Varese, l’ottava più grande della Lombardia, vicino al confine con la Svizzera, dall’inizio del periodo di pandemia (febbraio 2020) fino a marzo 2021. Per poter realizzare il lavoro è stato necessario uno sforzo collettivo che ha coinvolto non solo l’Università di Varese-Como e quella di Cagliari, ma anche l’Osservatorio Epidemiologico di Regione Lombardia, l’Agenzia regionale Aria, che hanno fornito i dati sanitari, e infine Arianet, una società privata leader nel campo delle modellizzazioni degli inquinanti ambientali, che ha messo a disposizione i dati sull’esposizione ambientale di lungo periodo”.
Dopo aver preso in considerazione molte delle caratteristiche cliniche e demografiche che possono aumentare la suscettibilità al virus, i risultati indicano che “l’aumento di 1 microgrammo/metro cubo nel livello medio annuo di Pm2.5 era associato ad un aumento del 5 per cento dei tassi di infezione, corrispondente a 294 ulteriori casi di positività da Covid-19 per 100mila abitanti/anno. Relazioni simili valgono per altri inquinanti, come Pm10, NO e NO2. Questi valori sono ancora più sorprendenti se si considera che l’esposizione media annua a Pm2.5, Pm10, e NO2 a Varese per l’anno 2018 (usato per le analisi) era sostanzialmente inferiore ai limiti di legge per la media annua di tali inquinanti”. Linguaggio certo non alla portata di tutti per dire che la scienza procede in direzione d’un consolidamento dell’ipotesi di una relazione tra pandemia e agenti inquinanti.
Dal professor Marco Ferrario, che compone lo stesso team di ricerca, arriva comunque un’importante precisazione: “È noto che l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico aumenta il rischio di malattie respiratorie e cardiovascolari, attraverso l’infiammazione persistente e la compromissione dell’immunità. Presumibilmente, gli stessi percorsi sono coinvolti nel legame tra inquinamento atmosferico ed incremento nei tassi di infezione da Covid-19. I nostri risultati da soli non sono in grado di stabilire il nesso di causa-effetto, ma forniscono la prima, solida prova empirica in merito al legame finora solo ipotizzato che collega l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico con l’incidenza di Covid-19. Per questo meritano una futura generalizzazione in diversi contesti”.
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