Perché il Covid-19 un anno fa ha colpito così duramente la Lombardia? Quali fattori socio-territoriali hanno facilitato e aggravato la sua rapida e massiccia diffusione soprattutto nella provincia di Bergamo? E quale lezione, dal punto di vista della gestione del territorio e dell’abitare, ci ha lasciato in eredità quell’esperienza così dolorosa e drammatica? A queste domande prova a rispondere una ricerca, quantitativa e qualitativa, focalizzata sulla prima ondata dell’epidemia, un lavoro scientifico che confluirà nel libro “Mapping the Epidemic. A systemic geography of Covid 19 in Italy” (Elsevier Editor), a cura di Emanuela Casti, Fulvio Adobati e Ilia Negri, che uscirà a settembre.



“Era cruciale capire cosa fosse successo allora – spiega Emanuela Casti, professore di Geografia, direttore del Centro Studi sul Territorio e responsabile del Laboratorio Cartografico Diathesis dell’Università di Bergamo – perché con la seconda ondata tutto si è pasticciato, i focolai non erano tali, ma cluster determinati dal numero dei tamponi eseguiti. Nella prima ondata, quando abbiamo avuto 3 Italie diverse a seconda dell’incidenza più o meno elevata del coronavirus, abbiamo voluto andare a fondo, indagando sulle dinamiche socio-territoriali per capire come mai l’intensità e la gravità dell’epidemia siano state così differenti”.



Che cosa avete scoperto?

Sono emerse tre fragilità. Nell’ipotesi iniziale abbiamo studiato la distribuzione dei fattori inquinanti: industrie, allevamenti, città con i loro problemi di riscaldamento e di traffico. Quell’intuizione, dettata dal buon senso, che sembrava poter fare la differenza tra i territori, ha poi trovato conferma da un insieme di studi internazionali, come la carta della Nato o di Eurostat, la cui osservazione sulla distribuzione dell’inquinamento spaventa, perché ciò che si vede in Pianura padana non lo si trova in nessun’altra parte del mondo.

Una situazione addirittura peggiore rispetto a grandi megalopoli, avvolte dallo smog, come per esempio Pechino?  



Non contano tanto i valori assoluti, cioè il grado delle polveri sottili o dei fattori inquinanti presenti nell’aria, quanto la persistenza nel tempo dei livelli superati: in base alla normativa Ue, non devono essere superiori per più di 35 giornate in un anno. Ebbene, in Pianura padana vengono regolarmente oltrepassati e questo dipende sì dalle emissioni, ma soprattutto dal clima.

In che senso?

La Pianura padana, purtroppo, è come un immenso catino, dove i fattori inquinanti ristagnano nell’aria. Che l’inquinamento sia una causa diretta del diffondersi dell’epidemia, come nel caso del virus del morbillo trasportato dalle particelle inquinanti, non è ancora chiaro, anche se esistono già studi internazionali che dicono sia così. Di certo, però, questo inquinamento rende fragile il sistema respiratorio di chi vive in Pianura padana, facilita così la trasmissione di un virus respiratorio come il Covid-19.

Oltre all’inquinamento, che cosa ha pesato negativamente?

Il sistema sanitario e assistenziale. Da un lato, puntando soprattutto sulle eccellenze ospedaliere, si sono sottratte risorse alla medicina di base, ai dispensari, ai centri salute e quant’altro. Sul versante assistenziale, invece, il dimensionamento delle Rsa, con la loro grande capienza, ha fatto sì che il virus sia entrato nelle case di riposo con lo stesso effetto che si ha buttando un cerino acceso in una polveriera.

E la terza fragilità?

E’ la più interessante. Le città di per sé non sono i luoghi più a rischio, molto di più lo sono alcuni punti delle città legati alla mobilità, in particolare gli spazi pubblici interessati dal pendolarismo.

Sta dicendo che la mobilità di per sé non incide sulla diffusione dei contagi?

Esatto. Se noi utilizzassimo forme di mobilità individuale, green o smart, l’impatto sarebbe bassissimo. I contagi avvengono quando in determinate ore registriamo una concentrazione obbligata nei mezzi pubblici collettivi di persone che stanno ammassate tra loro. Ecco perché l’attenzione va focalizzata sul pendolarismo più che sulla mobilità in generale.

Come siete arrivati a questa conclusione?

Abbiamo analizzato i dati Istat relativi al pendolarismo e a un indice di relazionalità sociale, indicatori già convalidati dalla comunità scientifica, che mostrano non solo le aree caratterizzate da maggiore dinamismo dei pendolari, ma anche se questo pendolarismo è interno o esterno ai comuni. Mappando queste aree, abbiamo così notato che quelle più gravi in termini di contagio sono non i centri città, ma le aree peri-urbane, cioè quei comuni che mostrano tassi di pendolarismo molto elevati, verso la città e soprattutto tra di loro. E’ quello che possiamo definire un “pendolarismo rizomatico”.

Che cosa si intende?

Non si tratta di un pendolarismo unidirezionato e unicentrico, come per esempio da Bergamo a Milano e viceversa. Siamo piuttosto in presenza di una mobilità che va in mille direzioni, che si alimentano tra di loro. In altre parole, la Pianura padana non è una metropoli come Pechino: c’è sì una metropoli, Milano, ma vicino esistono tante città medio-grandi, medie o medio-piccole che aumentano e alimentano questo rizoma, questi flussi di movimenti con direzioni molto incontrollabili.

Da geografa, come si può risolvere questa fragilità?

In una prospettiva a medio-lungo termine bisogna immaginare un nuovo modello di abitare.

Su quali basi?

Basato su una formula chiamata metro-montagna. Nel caso specifico della Pianura padana, tale formula prende in considerazione le aree montane limitrofe alla pianura urbanizzata senza però considerarle solo come mete turistiche. In realtà, all’interno proprio di questa reticolarità rizomatica, grazie a smart working, co-working e processi di digitalizzazione, è possibile ridisegnare un abitare i luoghi, ma non facendo più coincidere posto di lavoro e abitazione.  La montagna, cioè, diventa un luogo – come lo abbiamo definito – dell’abitare “felice”.

Perché felice?

Con questo termine assumiamo una dimensione molto dibattuta all’estero, ma non in Italia. La pandemia ci ha insegnato che dobbiamo cambiare, accettando i princìpi del vivere sostenibile, della giustizia sociale, del diritto di cittadinanza, riassumibili appunto nel concetto di felicità, che solo apparentemente sembra qualcosa di molto romantico, ma è ben altro.

Che cosa include e implica?

E’ l’idea di un vivere più equilibrato che è alla base del rapporto stilato tutti gli anni dall’Onu per stabilire la qualità di vita di un territorio; è anche alla base della Dichiarazione di indipendenza americana, ma c’è un progetto di legge per inserirla nella nostra Carta costituzionale. La lezione del Covid è stata devastante, ma forse anche catartica: ci ha fatto vedere che forse non eravamo tanto felici prima della pandemia.

Visto che il nascente governo Draghi avrà il ministero della Transizione ecologica, al quale molto probabilmente verranno affidate la gestione e la spesa dei 70 miliardi che il Recovery fund intende destinare alla svolta green, sarebbe il caso che investisse parte delle risorse proprio per la metro-montagna e per soluzioni legate all’abitare felice?

Ovviamente sì.

In che modo?

Nel 2013 Fabrizio Barca aveva messo in piedi un gruppo di lavoro per dare impulso alla montagna, individuando le cosiddette aree Snai (Strategia nazionale per lo sviluppo delle aree interne), bisognose di un’infrastrutturazione di cittadinanza, vale a dire di investimenti su scuola, sanità e mobilità. All’interno di questa individuazione delle aree Snai, c’è ancora oggi la possibilità di recuperare la montagna in questa chiave post-Covid: la pandemia ha reso più gravi le sua fragilità tradizionali, ma oggi abbiamo capito come si può intervenire con infrastrutture digitali e con una mobilità non più massicciamente collettiva.

Ci sono già esempi concreti in atto?

In Trentino ci sono bandi per dare le case nelle aree spopolate a famiglie con figli, offrendo loro i servizi necessari. Sono politiche di incentivazione che consentono di cavalcare non come ipotesi teorica, ma nei fatti l’idea della metro-montagna. E’ un fenomeno spontaneo che va messo a sistema con un insieme di infrastrutture. E potrebbe essere davvero la soluzione, un nuovo modo di innovazione reale. Prima della pandemia pensavamo che innovare volesse dire essere più veloci e più urbanizzati. Non è così.

Accennava prima ai tempi. Una prospettiva di medio-lungo periodo quanto tempo richiederebbe?

Essendo un fenomeno spontaneo già in atto e se gli inventivi venissero erogati in questa direzione, non servono tempi lunghi, perché alla fine non sono richiesti interventi onerosi in termini di investimento. Pensi solo agli edifici obsoleti e dismessi, alle stazioni o alle antiche colonie, che possono essere riutilizzati per creare spazi di co-working raggiungibili attraverso una mobilità sostenibile. Si tratta di riattivare un ripristino del territorio, lavorando anche per la bellezza del paesaggio e per contrastare il dissesto idrogeologico. Insomma, un approccio sistemico, non interventi isolati. Ecco perché vedo il ministero della Transizione ecologica come la manna.

(Marco Biscella)

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