Il 2020 che ci lasciamo alle spalle non sarà certo ricordato con nostalgia. Dopo i primi due mesi “normali” è esplosa la pandemia da Coronavirus con tutte le conseguenze umane, economiche e sociali che ha comportato: lockdown, misure di protezione, sistema sanitario in affanno, una politica stretta tra le esigenze contrapposte di salvaguardare la salute, di non danneggiare troppo l’economia, di difendere e se possibile incrementare il consenso.



Una fase caratterizzata dall’emergenza, dalla necessità di ridurre le libertà personali, di difendere i settori economici più pesantemente colpiti. Proprio la prospettiva della difesa è stata, solo in parte giustamente, il tema di fondo che ha giustificato giudizi e determinato strategie.

La diffusione del virus è stata vista come una conseguenza della globalizzazione, del sempre più stretto intreccio di rapporti che ha caratterizzato gli anni di questo Terzo millennio in cui soprattutto la Cina ha assunto un ruolo da protagonista. Un altro elemento è stato il ruolo da protagonista che ha assunto lo Stato, sia nell’aiuto ai settori in crisi, sia nel finanziamento degli interventi di sostegno alle persone e alle famiglie.



Per raggiungere gli obiettivi gli Stati hanno spinto sulla leva del debito grazie sia alla sospensione del Patto di stabilità, sia alla cintura di sicurezza predisposta dalla Banca centrale europea per assorbire tutte le emissioni dei titoli pubblici.

L’Europa è stata determinante perché i Governi potessero varare adeguati piani di protezione e sarà ancora più decisiva quando partirà il piano Next Generation Eu che potrebbe portare all’Italia oltre 200 miliardi di euro per rilanciare il sistema economico e renderlo più innovativo, più rispettoso dell’ambiente, più aperto ai giovani, maggiormente capace di creare posti di lavoro.



Eppure proprio l’Europa continua a essere vista come un ostacolo se non un nemico dai tanti movimenti populisti e sovranisti che continuano a battere sugli stessi tasti come se il mondo fosse lo stesso di dodici mesi fa. È sempre molto forte la tentazione di fare da soli, di non rispettare le regole dei mercati, di affermare la superiorità del “pubblico” rispetto al “privato”. Anche se la storia è ricca di dimostrazioni di sprechi, inefficienze, ritardi della gestione pubblica di settori di mercato dove la libera concorrenza potrebbe esprimersi al meglio.

Le prove sono tutte nel libro “Contro il sovranismo economico” di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro (Ed. Rizzoli, pagg. 240, € 18), docente di diritto dell’Unione europea il primo e direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni il secondo. Un’analisi attenta e impietosa della “storia e dei guasti di statalismo, nazionalismo, dirigismo, protezionismo, unilateralismo e antiglobalismo”: malattie che peraltro non vengono mai sole e che propongono rimedi peggiori dei mali che vorrebbero affrontare.

Nel concreto, per esempio, in questo anno, per molti aspetti drammatico, bisogna guardare a Roma e al Governo se si vogliono individuare le responsabilità che sono state alla base dei ritardi con cui si è affrontata in questo autunno la pandemia, ritardi che hanno determinato un numero di vittime percentualmente tre volte superiore a quello della Germania.

Perché già dalla fine della primavera si parlava di seconda ondata, si sottolineava la carenza dei posti letto e delle terapie intensive, si metteva in luce l’esigenza di garantire alle scuole una situazione di sicurezza con trasporti efficienti e sicuri.

Sarebbero stati disponibili 36 miliardi di fondi europei da destinare alla sanità (attraverso l’apposito sportello del fondo salva-Stati, Mes), ma l’opposizione tutta ideologica dei Cinquestelle e l’acquiescente inerzia del Pd hanno bloccato un’opportunità che avrebbe potuto essere determinante per fornire alle Regioni le risorse necessarie per adeguare i sistemi sanitari. Certo, la sanità è un bene pubblico, ma ci può essere una sanità governata localmente con un costruttivo rapporto tra pubblico e privato e una sanità controllata dall’alto con logiche di spartizione politica più che di efficienza di prevenzione e cura.

E continua così a essere un paradosso il fatto che gli italiani continuino ad avere un pessimo giudizio della burocrazia e dell’azione dei poteri pubblici e nello stesso tempo appoggino partiti e movimenti che vogliono moltiplicare il potere dello Stato.