Nell’Italia della seconda ondata della pandemia da Covid-19 uno dei punti dolenti sembra la mancanza di personale sanitario. L’attuale situazione sembra critica e spaventano gli oltre 20mila contagi giornalieri, l’indice Rt di trasmissività a 1,5 e il tasso di positività sui tamponi che schizza oltre il 10%. In questo stato la carenza di medici e infermieri si è trasformata in un’emergenza, ma è stata segnalata da più parti e l’allarme non è di quest’anno. Già nel 2019 l’associazione Anao-Assomed denunciava che entro il 2025 ci sarebbero stati 45mila pensionamenti a fronte di un’entrata nel Ssn di circa 25mila unità. Un deficit di circa 20mila dottori che sembra acuirsi anche per l’età elevata: secondo Eurostat il 54% dei medici italiani ha un’età superiore ai 55 anni, una percentuale che ne fa i più vecchi d’Europa. In un paese normale lo sguardo sarebbe rivolto al riordino delle scuole di specializzazione e anche a una riorganizzazione dei piani di studio del corso di medicina, che come è noto, con i suoi 6 anni è uno dei più lunghi al mondo. Ma in Italia non accade niente di tutto questo e i fatti recenti mostrano la fragilità del sistema di reclutamento.
A fine febbraio sotto i colpi della prima ondata dei contagi l’esame di Stato per i neolaureati viene rimandato a data da destinarsi. Arriva marzo e tutta Italia è costretta a casa con i comunicati della Protezione civile che assomigliavano a bollettini di guerra. Il ministro dell’Università, Manfredi, annuncia il definitivo annullamento dell’esame di Stato per tutti quei neolaureati che avevano svolto tre mesi di tirocinio abilitante. Sotto l’effetto dell’emergenza salta dunque la procedura ordinaria e oltre alla necessità di giovani medici da mandare in corsia, ci sono quelli che sono in dirittura d’arrivo. Potranno laurearsi entro la sessione estiva e senza l’esame di Stato partecipare (più tirocinio) con la leva precedente (laureati del secondo semestre 2019 e inizio 2020) al concorso per la specializzazione. Due annate da sistemare e una pandemia che manda in tilt il servizio sanitario nazionale. Un bell’affare che complica la situazione con una carenza di borse per la specializzazione, che però viene da lontano.
Il Covid-19 ha dunque un merito. Ha accorciato il tempo per arrivare a essere medici da 7 (sei di corso più uno per l’esame di Stato) a solo 6 anni, per cui i neolaureati 2020 hanno potuto partecipare al concorso di settembre (con iscrizione a luglio). Ma non facciamoci illusioni, perché i numeri sono impietosi. Nel 2019 erano disponibili 8mila borse con 17.500 candidati, mentre nel 2020 ci sono state quasi 14mila borse statali e circa 1.000 regionali e private con una partecipazione di oltre 23mila candidati. In pratica, se si tolgono i medici che scelgono la medicina generale (i medici di famiglia) il cui fabbisogno è stabilito dalle regioni (per il corso 2020-23 è di circa 1.200 giovani), si può calcolare che quest’anno ci siano in eccedenza, escludendo anche una quota per i medici assunti dalla sanità privata, circa 5mila laureati in medicina. Il paradosso tutto italiano di migliaia di abilitati alla professione medica che nel pieno del loro percorso formativo, con costi per lo Stato e per le famiglie, non hanno una collocazione precisa, lascia allibiti. Ma è anche un’assurdità, visto il gigantesco turnover previsto entro il 2025.
A luglio viene infine bandito il concorso per la specializzazione e anche quelli iscritti al primo anno del corso di Medicina generale (2019-2022), non ancora partito causa Covid, possono partecipare. Il concorso si svolge il 22 settembre, ma nell’Italia dei ricorsi permanenti tutto si blocca. La graduatoria secondo i termini del bando doveva uscire il 5 ottobre, rinviata al 27, ora si parla del 9 novembre. Eppure tutto ha un costo e di mezzo ci vanno le persone reali. Un posto di specializzazione vale circa 1.300 euro al mese, da cui vanno sottratti 1.250 euro per le tasse universitarie, mentre quello in Medicina generale per diventare medici di famiglia circa 800. Cifre misere che lasciano perplessi, visto che si parla di persone a cui affidare la propria salute e che essendo giovani, sono occupati in corsia dalle 8 alle 10 ore al giorno.
Un altro dato paradossale riguarda le borse di medicina generale per accedere al corso triennale, convenzionati con il Ssn. Lo scorso anno erano state 1.765 più 688 corsisti senza borsa, diminuite quest’anno a 1.202 più 714. Una riduzione del 32% inspiegabile nell’attuale contesto pandemico, che vede le regioni ridurre notevolmente le disponibilità di posti invece che aumentarli: la Lombardia passa da 313 a 174, la Sicilia si attesta tra 140 e gli 89 di quest’anno, mentre un altro ridimensionamento è documentato in Lazio con 183 assegni nel 2019 e 101 quest’anno.
Un’altra situazione critica riguarda la migrazione all’estero dei nostri giovani dottori. Da alcune fonti pare che ogni anno vadano oltralpe più di 1.500 neolaureati e Il Sole 24 Ore fa notare che la fuga ci costi oltre 350 milioni. Assurdo formare dei giovani, spendere per il diploma, l’università e poi lasciare che vadano lavorare e a specializzarsi in luoghi che offrono sicuramente accoglienza e possibilità maggiore di carriera e stipendi più lauti.
Paolo è un giovane medico appena laureato alla statale di Milano con il massimo dei voti ed è in attesa dell’esito del concorso per la specialità. È molto perplesso sul modo di gestire la carriera dei neodottori e precisa che “se in primavera si parlava di medici eroi, ora il Miur si è dimenticato di noi. Le poche borse rispetto ai candidati che corrispondono a circa due leve di laureati mette in evidenza come il ministero non abbia alcuna intenzione di riorganizzare e riformare la specializzazione medica. In teoria molti dicono che con circa lo 0,5% del Mes si potrebbe risolvere completamente il problema delle scuole per gli specialisti in Italia”.
Una piccola parte del fondo europeo dedicato alla sanità, di cui si discute l’adesione dalla scorsa primavera, non risolverebbe solo la specializzazione, ma anche tutto il percorso formativo dei medici, permetterebbe di aumentare le borse e incrementare la rete sanitaria territoriale, invece di diminuire i medici di famiglia e risolvere il disastroso gap del turnover. Soprattutto non lascerebbe al loro destino migliaia di giovani medici di cui per altro il Ssn ha estremo bisogno e non permetterebbe lo sperpero tutto italiano degli otre 6mila camici bianchi che negli ultimi anno sono fuggiti all’estero. Ma possiamo avere speranza che ciò accada in uno Stato che ha avuto il coraggio di emanare tre decreti del presidente del Consiglio in una settimana?