Il premier Giuseppe Conte: “Cercheremo di aprire le scuole prima di Natale, stiamo lavorando per questo”. La ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina: “Se i contagi andranno giù, e ci sarà la possibilità di allentare alcune restrizioni, mi auguro che anche le scuole superiori vedano un ritorno graduale degli studenti in classe”. Il ministro della Salute, Roberto Speranza: “Le scuole saranno ancora al centro dell’attenzione del governo, sono una priorità assoluta: valuteremo giorno per giorno i dati epidemiologici e proveremo a capire come il contesto ci consentirà una gestione di una funzione fondamentale del nostro Paese”. Il responsabile del Comitato tecnico-scientifico, Agostino Miozzo: “Le scuole devono, non possono, ma devono, restare aperte”.



A parole, Governo e Cts si dichiarano favorevoli alla riapertura delle scuole superiori, che sono state chiuse solo in Italia, mentre non lo hanno fatto Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna, colpite dall’epidemia anche in misura più violenta che da noi, ma consapevoli che il blocco della didattica in presenza provoca perdite di apprendimento ai ragazzi, impoverendo il capitale umano e il futuro di un intero paese. E se oggi la didattica in presenza sarà tra gli argomenti in agenda nella riunione tra Conte e i capi delegazione della maggioranza, mentre il ministro Azzolina incontrerà i sindaci delle grandi città metropolitane, sulla questione aleggiano ancora diverse domande cruciali: vogliamo, soprattutto lo vogliono le Regioni, davvero riaprire le scuole? Siamo davvero capaci di farlo? Stiamo veramente mettendo ogni cosa al suo posto e oliando al meglio tutti gli ingranaggi della catena, trasporti pubblici in primis? Cosa stiamo predisponendo per rendere sicuro l’arrivo di studenti e professori nelle strutture scolastiche, la loro permanenza nelle aule, il deflusso dei ragazzi al termine delle lezioni, evitando il più possibile occasioni di contagio diffuso? E soprattutto: saremo pronti alla riapertura delle scuole per mercoledì 9 dicembre, la data che potrebbe segnare il ritorno di milioni di ragazzi tra i banchi di scuola?



Prima di addentrarsi nelle auspicabili precauzioni da adottare, va ricordata una questione di metodo. Il governo, molto presumibilmente e alla luce dell’ultima evoluzione dei dati epidemiologici, si appresta a prendere una decisione domani, durante la riunione settimanale della cabina di regia. Il problema è: come già più volte successo in questi mesi con le più svariate categorie, con chi sta interloquendo – seriamente e con trasparenza – un governo che spesso ha deciso sua sponte, senza ascoltare o prendere in considerazione i suggerimenti dei soggetti coinvolti e destinatari delle medesime decisioni? Questa autoreferenzialità, un po’ pasticciona e un po’ arrogante, è stata alla base anche degli errori che hanno accompagnato la riapertura delle scuole a settembre, quando ci si è accorti ben presto – dopo settimane di stucchevoli dibattiti sui banchi a rotelle – che non erano stati sbloccati i fondi promessi, non erano stati lanciati i bandi che consentissero ai sindaci di reperire nuovi spazi per aumentare il numero delle classi e tanto meno si era trovata una soluzione efficace e praticabile al (temuto ma prevedibile) nodo degli affollamenti sui trasporti pubblici, salvo poi fare precipitosamente marcia indietro, imponendo, semplicisticamente e senza preoccuparsi dei dovuti controlli, il 50% di capienza su treni locali e bus.



Detto questo, va subito chiarito che far lezione in classe non è di per sé un’attività a rischio. “La scuola – ha ricordato Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità – anche nelle ultime analisi fatte si conferma contribuire in maniera assolutamente marginale alla curva di trasmissione di Sars-Cov2. La potenzialità di infettare sopra i 10 anni è come negli adulti, mentre sotto i 10 anni è minore ma non assente”.

Anche le evidenze scientifiche – raccolte in giro per il mondo, dalla Finlandia al Sudafrica – hanno evidenziato modelli incoraggianti. Secondo la rivista Science, distanziando i banchi, indossando le mascherine almeno quando ci si alza dal banco, suddividendo alunni e studenti in piccoli gruppi, sottoponendo studenti e insegnanti a tamponi periodici, i rischi di contagio diminuiscono sensibilmente. Negli Usa e in Germania si è pensato di dotare le aule con sistemi di aerazione e di filtri per l’aria, al fine di prevenire il contagio durante l’inverno, con un investimento tutto sommato non esorbitante.

A differenza di molti altri paesi, però, l’Italia presenta un’anomalia che non può essere trascurata: come ricorda l’Ocse, abbiamo infatti il corpo docente più anziano d’Europa, con un’età media degli insegnanti di 49 anni; stando ai dati del Miur, più di 300mila docenti di ruolo hanno oltre 54 anni e quindi rientrano tra le fasce della popolazione a rischio Covid (anche se la letalità non è alta, visto che la malattia porta al decesso, nel 90% e rotti dei casi, soprattutto over 80 con più patologie).

Comunque, non si può abbassare la guardia, soprattutto ora che ci avviciniamo alla stagione più rigida, e dunque più favorevole alla diffusione dei virus respiratori come il Covid, ma non solo. E allora, che cosa fare, tenendo presente che a essere a rischio non è la permanenza in classe quanto tutto ciò che ruota – prima e dopo – attorno alla scuola?

“Una soluzione potrebbe essere quella dei doppi turni”, suggerisce Giorgio Ragazzini del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. In concreto? “Si tratta di suddividere le classi: metà vanno a scuola la mattina, l’altra metà al pomeriggio, alternando questa suddivisione di settimana in settimana. Questo dovrebbe alleggerire l’affollamento negli spazi comuni durante l’intervallo e nell’utilizzo dei bagni della scuola. Inoltre dovrebbe dimezzare il contributo che i ragazzi danno all’affollamento sui bus. A tal proposito, contestualmente sarebbe forse il caso di rafforzare la presenza dei mezzi in corrispondenza con gli orari di ingresso e uscita degli studenti. Agli insegnanti ovviamente andrebbero concesse indennità o compensazioni, in termini magari di permessi. Se invece si dovesse decidere di mantenere solo l’orario mattutino, si tratterebbe di scaglionare gli orari di entrata. Ma ciò può avvenire entro certi limiti”.

E per evitare l’assembramento davanti alle scuole? “La mattina basterebbe far entrare via via i ragazzi quando arrivano, mentre alla fine delle lezioni, il preside, come un buon padre di famiglia, potrebbe farsi carico di ricordare ai ragazzi di mantenere la mascherina e il distanziamento, esortandoli ad avviarsi verso casa”.

Questi cambiamenti o adattamenti richiedono che sia la scuola a piegarsi al virus e non viceversa. Ma questo apre il delicato capitolo dell’organizzazione scolastica. Su questo punto, come la pensano i sindacati? Sono parte attiva per la soluzione di questi problemi o piuttosto sono essi stessi la causa della mancata soluzione a questi problemi?

Veniamo, ora, al nodo gordiano dei trasporti pubblici locali. Al momento non si ha notizia di interlocuzioni con il governo, ma si segnalano incontri a livello locale con le società di trasporti. Chiaro che il problema tocca soprattutto le grandi città metropolitane, che calamitano grandi flussi di studenti-pendolari, ben diverso il discorso per i piccoli comuni. Ma i trasporti sono generalmente additati come uno dei driver di questa nuova ondata. Come intervenire?

Spiega Luca Lanini, docente di Logistica e supply chain all’Università Cattolica di Piacenza e Milano e insegnante di logistica in una scuola superiore a Mantova: “Premesso che la stragrande maggioranza delle aziende di trasporto pubblico locale non ha affrontato il tema della riorganizzazione né a marzo, né in estate e neppure adesso, nel breve il nodo del Tpl si gioca molto sul trasporto extra-urbano: va attuato, di concerto con le scuole, uno scaglionamento, non di ore, bensì alternando i flussi tra mattina e pomeriggio oppure a giorni alterni. Era una soluzione da finanziare fin da subito”.

Ma va poi affrontato un problema di lungo periodo, più strategico, “perché con il Covid dovremo convivere non fino alla fine di questo anno scolastico, ma per diversi anni. Qui si tratta di ragionare sulle tariffe e su un’offerta differenziata, commisurata per gli studenti, prevedendo abbonamenti per tratta e con posto assegnato, così da distribuirli anche su orari meno frequentati. In secondo luogo, va migliorata l’integrazione dell’offerta tra ferro e gomma, favorendo il cosiddetto shift modale dal bus al treno”.

E sull’idea da più parti ventilata di ricorrere ai bus privati o ai taxi, oggi largamente inutilizzati a causa dei lockdown territoriali, per affiancare il Tpl nel trasporto degli studenti a scuola? “I pullman gran turismo vengono in parte già coinvolti, non è una novità. Quanto ai taxi, a causa del distanziamento potrebbero al massimo portare due studenti alla volta e questo rende la soluzione, dal punto di vista logistico, poco praticabile. Non ci servono soluzioni d’emergenza; bisogna iniziare, da subito, a riprogrammare e pianificare”.

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