Settantuno i suicidi registrati da inizio pandemia e direttamente correlati al Coronavirus. Fra questi, tanti infermieri, e infermieri risultati positivi al Covid. Un femminicidio ogni due giorni durante il lockdown. Due quelli registrati solo il 25 novembre, proprio nella giornata contro la violenza sulle donne. Donne costrette in casa coi loro sicari, famiglie intere forzate a coesistere in una convivenza senza via d’uscita, una costrizione che in alcuni casi può diventare fatale, anche per i minori. “Il contatto è diventato contagio”, sintetizza così Cesare Maria Cornaggia, psichiatra. Che però è ottimista circa la nostra possibilità di conservare e recuperare la prossimità con l’altro. E riflette sulla durissima esperienza del lutto vissuta da tante famiglie in questi mesi. Un lutto difficile da elaborare, quando l’aspetto visivo, fisico, della separazione viene meno.



Professore, il lockdown e la pandemia hanno segnato l’intensificarsi dei suicidi nel nostro Paese, un fenomeno che possiamo cercare di inquadrare e comprendere?

Io cercherei dapprima di puntualizzare due elementi. Certamente vi sono diverse segnalazioni che indicano che vi è un aumento di suicidi o dei tentati suicidi, però attenzione: non abbiamo dei dati sufficientemente controllati per poter dare una dimensione reale della questione, quindi dobbiamo essere prudenti nel valutare.



Il secondo elemento?

Il secondo è che noi non sappiamo questo maggiore rischio suicidario durante la pandemia da Coronavirus a quale fattore reale sia da attribuire, perché ne abbiamo più di uno.

Quali sono?

Uno è quello legato alla presenza del virus, all’ansia, all’angoscia per la perdita della vita, propria e dei propri cari. Un altro è legato al lockdown, alla chiusura, alle restrizioni, al dover cambiare il proprio stile di vita. Ma c’è un terzo fattore, che è quello della preoccupazione economica: ci sono persone che hanno un’azienda, un’attività commerciale e sono in perdita, persone che temono di perdere il lavoro e persone che l’hanno perso.



Non abbiamo ancora una presa sul problema?

Noi oggi sappiamo che esiste un rischio di suicidio e di tentato suicidio, ma non abbiamo ancora la valutazione di quanto sia ampio questo rischio e non abbiamo la visione chiara dei fattori a cui è legato. In Italia, dall’inizio della pandemia, si calcolano circa 71 suicidi Coronavirus-correlati, ma dobbiamo studiarne le cause.

Molte volte purtroppo abbiamo appreso di suicidi avvenuti in ambito ospedaliero, specie fra gli infermieri risultati positivi al Covid. Cosa scatta nella mente di una persona che è anche attiva professionalmente? È proprio il fatto di vivere in prima persona l’impatto della pandemia?

Quello che scatta nella mente della persona appartiene al mistero della persona stessa. In questo caso specifico potrebbe essere l’ansia, la paura dell’incontro con l’inatteso, il sentirsi minacciati, la perdita della possibilità di un controllo sulla vita, sulle azioni: un senso di impotenza e ineluttabilità.

Ci sono fattori “ambientali”, culturali che influiscono?

L’humus culturale in cui siamo immersi è intriso dell’illusoria pretesa di controllare la realtà, dell’idea che avremmo guarito tutte le malattie, negato la morte e la sofferenze. Ritrovarci in balìa di qualcosa che non controlliamo più è un bel colpo alla immaginaria onnipotenza in cui ci siamo proiettati.

Con il Covid tante persone hanno perso i loro cari e non hanno nemmeno potuto rivederli un’ultima volta, o dare loro sepoltura. È un’esperienza del lutto inedita e sicuramente complessa, come viene elaborata?

La ringrazio per questa domanda perché tocca un tema di grande importanza e molto delicato. L’esperienza della morte nel corso della pandemia si è accompagnata alla perdita del rito dell’addio, della sepoltura, ha messo in sospensione i processi di lutto. Il lutto è un’elaborazione della perdita dell’oggetto d’amore, “oggetto” inteso come punto in cui è collocato il nostro amore. Nell’elaborazione del lutto io questo oggetto d’amore ho bisogno di vederlo, tanto che il rito della sepoltura è il rito del vedere: vedere il corpo che viene chiuso in una cassa e la cassa che viene messa in quel loculo, sotto quella terra. Io so che l’ho perso ma so dov’è: l’ho salutato, l’ho guardato. È come se accanto alla persona avessimo perso anche questa possibilità.

Cosa significa privarsi di questa possibilità?

Ci sarà un grande dolore in tante persone che difficilmente elaboreranno il lutto, proprio perché hanno visto uscire di casa il proprio caro ancora vivo e poi non l’hanno visto più, non l’hanno accompagnato in quel passaggio. Oggi tutto è a distanza, tutto è interrotto, tutto è lontano: il contatto è diventato contagio, non fonte di bene ma di male.

Accanto a ciò non possiamo non menzionare le tante donne che hanno perso la vita o che si sentono quotidianamente minacciate perché vivono in contesti di violenza domestica.

C’è un’impossibilità di fuga, la donna minacciata deve stare in casa, proprio al fianco del suo persecutore. Anche in questo caso dovremo valutare con calma i dati e fare degli studi. Ci sono però dati indicativi dell’aumento dell’uso di alcol e tabacco che a volte può accompagnare i maltrattamenti in famiglia, perché nella stragrande maggioranza dei casi i maltrattamenti sono intra-familiari.

Le cattive abitudini sono un altro fattore?

C’è in generale un aumento di condotte di vita negative. Il maltrattamento avviene sulle donne ma anche sui minori, che assistono alle cattive abitudini dei genitori, magari anche minori portatori di difficoltà ed handicap, costretti in un ambiente domestico non ottimale. Sarebbe molto interessante vedere in un futuro anche quante richieste di separazione avremo dopo la pandemia.

(Emanuela Giacca)

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