Il nuovo Dpcm ha lasciato scoperto un punto fondamentale, i trasporti. L’unica menzione che se ne fa nel decreto riguarda la raccomandazione ai cittadini di spostarsi il meno possibile o comunque soltanto per motivi strettamente necessari. È sconsigliato, ma non vietato, lo spostamento fra comuni e l’uso di mezzi pubblici. Ma come mai il decreto rinuncia a regolamentare proprio un’attività e una movimentazione di persone, come quelle legate ai trasporti, che implicano un oggettivo rischio per la salute? Quali sono i gap amministrativi che hanno reso impossibile su questo punto prendere una decisione? Ne abbiamo parlato con Lanfranco Senn, professore ordinario di Economia regionale all’Università Bocconi di Milano. Regolare un settore come quello dei trasporti pubblici risulta estremamente difficile, questo secondo l’economista il motivo della mancata decisione da parte del governo. Da un lato c’è una concezione troppo unitaria delle decisioni governative, per cui le stesse regole si devono applicare a tutti i territori, pur così differenziati fra loro. Dall’altro, la mancanza di un dialogo fra comuni (e città metropolitane) e regioni esaspera la disorganizzazione lasciando la decisione finale al cittadino. Una scelta molto rischiosa.



Parliamo della situazione dei trasporti. Perché secondo lei nel nuovo Dpcm non è stata prevista alcuna misura particolare se non la raccomandazione di prendere i mezzi pubblici solo in caso di necessità?

Perché in realtà c’è una grande scarsità di chiarezza da parte del Governo su che cosa sia realmente pericoloso per la salute e su cosa possa o non debba essere fatto per evitare problemi economici. Che occorra prendere i trasporti per andare in ufficio o per portare i bambini a scuola, per quelli che continuano ad andarci, è una presa d’atto di un fatto incontrovertibile, inevitabile, ma contemporaneamente non si è in grado di gestire la sicurezza nella mobilità.



In che senso?

Il mondo dei trasporti e della mobilità è un mondo complicatissimo, la gente ha comportamenti e fa scelte di mobilità molto varie. C’è chi di questi tempi sceglie la macchina per andare in ufficio o per portare i bambini a scuola, in modo da non entrare in contatto con gli altri, viceversa ci sono persone che non hanno la macchina o che ritengono di non poterne sostenere i costi e quindi prendono i mezzi pubblici. I mezzi però sono tanti: ci sono i tram, ci sono gli autobus, ci sono le metropolitane, c’è il car sharing, le ferrovie. Gestire completamente la varietà di queste alternative è non solo difficile ma sarebbe nello stesso tempo molto dittatoriale, insostenibile dal punto di vista della reazione delle persone. Insomma c’è un fatto oggettivo, e uno dei motivi per cui non si prendono misure è perché è difficilissimo farlo.



Qual è la difficoltà maggiore?

In una logica come quella governativa di oggi, in cui se prendo delle misure le prendo uguali per tutti, non si può trascurare il fatto che Milano è diversa da Roma ma soprattutto è diversa da Piacenza, Asti e Treviso.

Cosa vuol dire?

Voglio dire che la grande città ha delle domande di mobilità totalmente diverse da quelle della città media o addirittura dall’area rurale. Le aree rurali o comunque meno urbanizzate, in cui la densità demografica e insediativa è molto più bassa, questi problemi non li pongono neppure, mentre nelle città cosiddette radiali come Milano, dove entri da varie direzioni e punti sul centro, sulle linee metropolitane non puoi non avere una concentrazione esasperata.

E non basta aumentare le corse?

Qualcuno dice aumentiamo le corse in modo tale che non riempiamo tutti i vagoni, gli autobus etc., ma non è che schiocchi le dita e metti a disposizione più autobus e più tram, perché non ci sono. Non solo: le metropolitane non puoi farle correre sulle linee più di un minuto e mezzo una dopo l’altra, tecnicamente non è possibile mettere un treno di metropolitana ogni quarantacinque secondi, ci sono anche dei vincoli oggettivi.

Specialmente nelle città in cui i mezzi funzionano già molto bene.

Esattamente. Milano è diversa da Roma, e non è solo questo il punto. L’Italia è fatta di cento città di media dimensione e questa media dimensione non puoi trattarla nello stesso modo delle grandi città. C’è una mentalità, e questo è un errore, in cui non si differenziano le politiche a seconda del territorio, neanche nei trasporti. E se non tieni in considerazione il territorio i trasporti non li gestisci, perché il traporto è un’attività di servizio, non è fine a se stesso.

In altri termini?

Serve per andare in ufficio, a scuola, incontrare le persone e fare la spesa; dipende da queste attività a monte, da come funzionano le scuole, gli uffici, i negozi, se i trasporti sono tanto o poco utilizzati e quali.

Sta dicendo che la gestione è troppo indifferenziata?

Voglio dire che c’è un errore nella politica governativa per cui si vorrebbero fare misure valide per tutto il territorio nazionale, quando il territorio nazionale è assolutamente differenziato, e non è solo differenziato per regione: all’interno delle regioni ci sono città densamente popolate e altre meno popolate, quelle che prima ho chiamato aree rurali.

Lei cosa auspica?

Decidere se rafforzare, proibire o regolare la mobilità è possibile soltanto per chi conosce il territorio da vicino, non da lontano, quindi sicuramente un decentramento regionale delle regioni in materia di mobilità è auspicabile, in modo tale che le regioni e i governi regionali possano decidere in funzione dei bisogni territoriali. Una norma nazionale, sia per la complessità della mobilità sia per la varietà dei territori, è insensata.

Per le grandi città però non basterebbe nemmeno la decisione su base territoriale: c’è un problema di frammentazione, per cui ad esempio per Atm decide il comune, per Trenord la regione.

È vero, nel campo dei trasporti proprio perché la gente si muove dovendo e potendo scegliere tra modi di trasporto diversi (l’auto, la ferrovia, la bicicletta, l’andare a piedi etc.), in virtù di questa complessità, l’unica possibilità è prendere delle decisioni insieme. Frammentare e lasciare al cittadino la responsabilità della decisione ultima di come muoversi è a rischio.

Come si può fare?

O il sindaco o il presidente della regione devono regolare questa mobilità, ma devono farlo insieme, di concerto, poiché la mobilità non avviene solo all’interno della città né solo fuori dalla città; c’è un’interazione molto forte tra le città e i territori contermini (non a caso parliamo di pendolarismo). Ci deve essere qualcuno che si occupi di regolare la mobilità dei cittadini fuori dalla città e qualcuno che si occupi di regolarla dentro la città.

Una collaborazione maggiore fra comuni e regioni, dunque.

Se la regione e il sindaco o l’amministrazione comunale non collaborano è come se immaginassero che ai confini amministrativi cambino le cose per chi si sposta. Non è vero, le cose sono integrate a seconda dei bisogni di mobilità dei cittadini, un pendolare fa pezzi di movimento fuori dalla città e pezzi di movimento dentro la città.

Ci sono interessi economici particolari dietro queste decisioni?

Non ci sono interessi economici, di penalizzare un settore e privilegiarne un altro, questo sicuramente no. Semmai qui c’è una sottile concezione culturale distorta secondo cui i ristoranti e bar sono attività private, il trasporto invece è un’attività pubblica, giuridicamente del pubblico o comunque per il pubblico, quindi risponde a un bisogno necessario.

Per questo non è stato toccato?

C’è l’idea che il traporto pubblico non lo posso vincolare, perché è una domanda collettiva a cui non posso non rispondere, mentre l’attività del ristorante, della palestra, del luogo sportivo è un’attività privata e di conseguenza io posso regolarla. Tutto questo nasconde una concezione dicotomica, conflittuale, del rapporto fra pubblico e privato.

(Emanuela Giacca)

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