Il violento scontro di narrazioni che va avanti da quasi un anno sul Covid è un efficace rappresentazione di che cos’è l’ideologia: la riduzione della vastità del reale, della sua complessità ad un’idea precostituita, al minuscolo pezzo di mondo che si intravvede dalla propria spécola e che esclude qualsiasi altro dato sfugga alla trincea del proprio campo di osservazione.



Sintetizzando, nell’agone dello scontro di opinioni si possono rintracciare due fazioni contrapposte. Da una parte chi – per terrore o per opportunità – coglie solo il problema della curva epidemiologica da controllare, e quindi non vede o non vuole vedere i danni collaterali a livello economico, psicologico, sanitario che si sono abbattuti e si abbatteranno su una larga fetta di popolazione a causa di un’altra chiusura. Dall’altra parte chi – per stanchezza o per convenienza politica – esaspera l’evidente problema sociale ed economico e minimizza sulla situazione sanitaria, arrivando a negare l’emergenza o, peggio, è disposta – senza ammetterlo – a veder cadere vite perché “hanno patologie pregresse” o perché “in fondo basta con questo Covid ché il paese deve andare avanti”. Ma entrambe le posizioni sono costrette a cancellare dei pezzi per continuare ad esistere.



E in questo vicolo angusto della propria opinione si diventa facili bersagli senza anticorpi dei media e della comunicazione.

E così la guerra procede su tv, giornali, social, strade a colpi di testimonianze di infermieri stremati dall’emergenza, giovani intubati, bambini in terapia intensiva, ospedali in tilt, curve angoscianti. E subito dall’altra parte della barricata si rintuzzano gli attacchi con struggenti storie di imprenditori suicidi, lavoratori allo stremo, percentuali di asintomatici, luminari alla ribalta, eccetera.

Però in fondo si ha come l’impressione che nessuno senta sulla propria carne il dolore di questa gente, il dolore dell’altro. Le storie degli altri servono sostanzialmente per puntellare le proprie convinzioni, sono molotov a supporto della nostra personalissima battaglia, che finisce per impossessarsi di noi senza neanche accorgercene, rendendoci ciechi. Ma chi non avverte su di sé il dolore di un anziano che a causa di mancanze di cure è costretto a morire solo e senza fiato nel proprio letto, come fa a comprendere fino in fondo lo strazio di chi decide di farla finita perché non riesce più a portare il pane a casa per i figli? E viceversa, ovviamente. Invece le nostre narrazioni ce li offrono come se fossero due dolori diversi, contrapposti.



La ragione di questo scontro sembra radicata su un’ultima disistima e disinteresse per l’altro. Per la sua storia, per la sua posizione, per la sua prospettiva. Anche quando è mascherato da azioni o battaglie umanistiche. L’opinione personale si erge a corazza impenetrabile, rifugio in cui c’è spazio solo per quello che penso o che mi tocca più da vicino, per circostanze storiche, sensibilità, carattere, interessi. “Il dolore degli altri è dolore a metà” diceva una splendida canzone di Fabrizio De André. Un dolore che non mi interpella fino in fondo perché troppo occupato a guardare l’ombelico delle mie convinzioni.

Questa divisione che si gioca a livello personale, in famiglia, tra gli amici, in società, sta letteralmente lacerando il paese – con una politica che non riesce in alcun modo ad essere un esempio di un approccio diverso, anzi – e ci mette nelle condizioni peggiori per attraversare questo crinale storico che ci è dato da vivere.

Eppure la cosa più evidente è che la difesa strenua dell’opinione logora. Dice una bellissima canzone di Claudio Chieffo: “Nella mia guerra contro la falsità, contro l’ingiustizia ho imparato soltanto ad ingannar me stesso”. Quello che penso, anche quando prevale dialetticamente, non è capace di liberarmi, non è capace di regalare un istante di gioia all’altezza di quella che si prova quando si abbandona davvero sé per lasciare posto all’altro, ad altro. Dove l’altro può essere il volto di un collega, una poesia, un tramonto, un articolo di giornale fino all’opinione del vicino di casa sul Covid, sul referendum o sugli orari della differenziata. Anche quando questo altro ha un volto ostico, incomprensibile, anche quando si mostra nel suo essere insondabile e misterioso.

In queste giorni in cui si tratteggiano scenari sempre più foschi all’orizzonte come è potente quest’esigenza di liberazione. Liberazione dal Covid – certo -, ma soprattutto liberazione da sé, dalla propria opinione, da questa parzialità di sguardo, dalla confusione in questa ridda di interpretazioni in cui la realtà scompare, vittima perenne della proiezione del mio pensiero. Perché il Covid – bene o male – lo attraverseremo, come sono state attraversate tutte le fasi più complicate della storia dell’uomo. Noi o qualcun altro lo farà al nostro posto. Ma serve qualcosa di più potente di un vaccino per liberarci dalla trappola dell’ideologia, occorre una nuova capacità di amare e di abbracciare, “ci vuole un’altra vita” diceva il maestro Battiato. In questa vita.

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