E’ il nodo gordiano che nessuno si è preso la briga di sciogliere fin dall’inizio della pandemia: la qualità dei dati. La raccolta e la comunicazione dei numeri – dai contagi ai decessi – dovrebbe aiutare a elaborare strategie di contrasto al Covid più tempestive ed efficaci e sono in tanti a mettere, ancora oggi, in dubbio la bontà delle scelte adottate dai governi.



Anzi, proprio oggi, con la presenza sempre più invadente e ingombrante della variante Omicron – assai più contagiosa ma ben meno patogena della Delta – le informazioni, anche ufficiali, monche, poco dettagliate e troppo grezze, da un lato, creano ansia fra le persone e inducono ad adottare decisioni “sbagliate”. Come ha sottolineato in una recente intervista il professor Antonello Maruotti, Ordinario di Statistica all’Università Lumsa e cofondatore di StatGroup19, gruppo inter-accademico di ricerca statistica sulla pandemia da Covid-19.



Perché ha definito i dati dell’Iss sulla pandemia Covid “opachi”?

Ho riportato ciò che è sotto gli occhi di tutti. Ci sono dei dati che vengono riportati che sono controintuitivi. Ad esempio, dai dati ufficiali, il rischio di ospedalizzazione è minore, in alcune fasce di età, per chi ha due dosi rispetto a chi ne ha tre. Avere informazioni dettagliate, come ad esempio sapere chi si ospedalizza per Covid o con Covid, aiuterebbe a dare una spiegazione a questi numeri, che altrimenti si prestano a interpretazioni varie, ad alimentare paure e aprono le porte alla diffusione di notizie non accurate.



Altri limiti o problemi?

L’altra informazione mancante, al momento, è l’incidenza negli under 12 suddivisa tra vaccinati e non vaccinati. La campagna vaccinale per questa specifica fascia di età è iniziata da più di un mese ormai e questi dati sono fondamentali per capire le scelte prese sulla gestione dell’epidemia all’interno delle scuole. Aggiunga, poi, che spesso accade di avere tabelle e testo all’interno del bollettino con date riferite a bollettini precedenti. Anche queste piccole disattenzioni portano le persone ad avere meno fiducia in ciò che viene comunicato e nei dati ufficiali.

Quali e come andrebbero comunicati oggi i dati sul Covid?

Ci vuole un livello di dettaglio maggiore. Ospedalizzazioni per o con Covid, numero di comorbidità, cioè altre patologie presenti, nei decessi sono esempi di informazioni che già esistono, ma che non vengono comunicate con la dovuta frequenza e attenzione. Infine, è fondamentale disaggregare le informazioni almeno a livello provinciale. In prospettiva, si deve poter intervenire, laddove necessario, su piccole aree. Inutile continuare a imporre restrizioni a intere regioni. Purtroppo la qualità dei dati provinciali è pessima e quella dei dati comunali troppo eterogenea per poter essere utilizzata.

Non ha l’impressione che la continua, quotidiana comunicazione ansiogena sulla pandemia abbia prodotto un gap tra emergenza percepita ed emergenza reale?

Il problema non è nei dati. Il problema è nella comunicazione dei dati.

In che senso?

I dati sono un bene comune. Già nel 2020, in soli 10 giorni, si raccolsero 134 organizzazioni e oltre 35mila firmatari per la petizione, promossa da #DatiBeneComune, che chiedeva maggiore trasparenza e condivisione dei dati. I dati giornalieri, come ribadito anche dalla Società Italiana di Statistica in un recente comunicato, sono fondamentali per cogliere le rapide variazioni dei principali indicatori dell’epidemia. I dati giornalieri ci consentono di catturare le tendenze in tempi brevissimi e predisporre gli interventi adeguati. Inoltre, giova ricordarlo, viviamo nella società dell’informazione. Diminuire la trasparenza è un assist ai creatori di bufale.

Presupposti che valgono anche con la variante Omicron?

Dal punto di vista della gestione attuale dell’epidemia, con Omicron è stato ancor più importante avere questo livello di dettaglio temporale. Omicron è stata una fiammata. Senza i dati giornalieri non sarebbe stato possibile capirne e prevederne l’andamento.

Gestire Omicron con dati settimanali o con indicatori stimati su dati vecchi di due settimane, come l’Rt, non ha alcun senso e fornisce una fotografia distorta dell’evoluzione dell’epidemia.

Il calo dei contagi è riconosciuto da tutti: è il momento di cancellare le attuali restrizioni, come fanno altri paesi europei? E hanno ancora senso i colori alle Regioni?

Il tempo per togliere i colori è maturo. Anche perché, per i vaccinati, non ci sono particolari restrizioni, se non in zona rossa. Ecco, la zona rossa va mantenuta per intervenire in situazioni di particolare emergenza. Inoltre, abbiamo già le varie declinazioni del Green Pass a imporre delle limitazioni, seppur non troppo invasive.

Anche l’Italia dovrebbe incamminarsi sulla via della Gran Bretagna?

Eviterei di seguire l’esempio del Regno Unito, con una sorta di liberi tutti, visti i pessimi risultati in termini di gestione dell’epidemia raccolti finora. Tuttavia, dobbiamo fare in modo che si torni a una vita per quanto più normale. Inoltre, avere restrizioni, senza controlli, può solo creare un effetto controproducente. 

Secondo lei, la strategia di contrasto alla pandemia è sbagliata. Che misure bisognerebbe adottare?

Il sistema a colori è stato troppo spesso usato in modo punitivo, invece che preventivo. Il loro superamento è sicuramente un segnale nella direzione giusta. Non credo sia il momento di parlare di misure restrittive. Piuttosto andrebbe potenziato il monitoraggio e, di conseguenza, il tracciamento, che è completamente saltato con Omicron. Poi bisognerebbe abbandonare posizioni ideologiche e prettamente politiche, basandosi di più su ciò che dicono i dati; invece di andare alla ricerca del numero che confermi una decisione già presa.

Che cosa andrebbe cambiato?

E’ fondamentale migliorare il sistema di sorveglianza. Migliorare la qualità del dato e automatizzarne la raccolta. Ancora c’è troppa eterogeneità tra le Regioni su questo punto. Il presidente Draghi ha detto: “ogni decisione è guidata dai dati”. Se i dati, però, sono inaffidabili o di bassa qualità, non importa quali saranno le decisioni politiche prese, perché sarà comunque il caso ad avere l’ultima parola.

Tamponi e quarantene: le regole vanno aggiornate?

Assolutamente sì. Con Massimo Ciccozzi, del Campus Biomedico, e altri colleghi abbiamo da poco pubblicato un lavoro sul Journal of Medical Virology in cui abbiamo messo in evidenza come al momento rischiamo di trovarci prigionieri di nuove varianti – e Omicron ne è stato l’esempio – o di essere schiavi dei tamponi per poter vivere “normalmente”. Detto che i positivi devono restare isolati, anche se asintomatici, si deve immaginare una riduzione delle quarantene per tutti, soprattutto in presenza di varianti meno aggressive. Dobbiamo evitare un lockdown di fatto.

Come?

A questo proposito, un dato importante da raccogliere è il tempo che intercorre tra la positività e la negativizzazione. Questo dato ci darebbe informazioni importanti per ottimizzare i tempi di quarantena al variare della variante. Purtroppo, però, continuiamo a sequenziare meno di quando sarebbe necessario, anche se rispettiamo i parametri europei.

Con la Omicron potremmo vedere la fine della pandemia?

Non ci sono certezze dopo Omicron. Per quella che è la nostra esperienza con le altre epidemie, Omicron ha dato una grossa spallata, al prezzo di milioni di contagiati in un brevissimo periodo, per fortuna per lo più asintomatici o paucisintomatici. Se avessimo avuto lo stesso numero di casi per la variante Delta, la situazione sarebbe stata molto più difficile da gestire e avremmo registrato ancora più decessi. Ovviamente, se questi numeri di contagiati si fossero registrati nel 2020, senza il vaccino, probabilmente non saremmo stati in grado di gestire la pandemia. Teniamo a mente che Omicron, nella sua fase discendente, infetterà comunque 2 milioni di persone in Italia, o anche più.

Dobbiamo temere l’arrivo di nuove varianti?

Le nuove varianti si generano casualmente. Non sappiamo se e quando ne arriverà un’altra, né quanto sarà contagiosa o infettiva. La via è la vaccinazione dei paesi poveri, unico strumento per ridurre la probabilità che insorgano nuove varianti.

(Marco Biscella)

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