L’ultimo bollettino conferma il costante aumento di casi positivi, che hanno superato quota 53mila. Ieri sono stati conteggiati 2.499 nuovi contagiati, a fronte di un numero record – ben 120.301 – di tamponi processati, 23 decessi di pazienti Covid-19, con diversi morti nelle Rsa, 48 ricoveri in più e quasi 300 posti letto occupati nelle terapie intensive. Non solo: al Centro-Sud si segnalano sempre più strutture sanitarie sotto stress e il Covid ha rialzato la testa anche in Veneto. Quanto può preoccupare questo trend? Che cosa rischia il Sud? A che punto siamo con l’immunità di gregge dopo oltre sette mesi di epidemia? Il virus è tornato aggressivo come a febbraio-marzo? Abbiamo le terapie utili per fronteggiare questa nuova fiammata del Covid? Lo abbiamo chiesto ad Antonio Clavenna, ricercatore presso il Dipartimento di salute pubblica dell’Istituto Mario Negri.
Al Centro-Sud il virus ha ripreso a correre e si segnalano forti pressioni sulle strutture sanitarie. Perché rischiano le regioni del Sud?
È possibile che in contesti che a marzo-aprile non hanno vissuto un impatto tragico con il virus come in alcuni contesti del Nord Italia, come la provincia di Bergamo, le persone tendano con maggior fatica ad adottare sistematicamente alcune misure preventive. È giunto il momento di modificare i comportamenti quotidiani e di essere più prudenti. Il che non vuol dire rinunciare del tutto alla normalità, ma una maggiore attenzione sì.
Potrebbero ritrovarsi nelle stesse condizioni in cui si sono trovate le regioni del Nord a marzo-aprile?
Il problema delle regioni del Sud – e la preoccupazione era già presente la scorsa primavera – è il livello di infrastrutture sanitarie e di disponibilità di posti in ospedale che sono inferiori rispetto al Nord. Alcune regioni meridionali, anche con un’epidemia meno intensa di quella vissuta in Lombardia a marzo, potrebbero andare in sofferenza.
Come evitare questo rischio?
Sta nella capacità di mettere tempestivamente in atto delle misure a livello di popolazione che consentano di rallentare la circolazione del virus: maggiore attenzione al distanziamento fisico, all’utilizzo delle mascherine quando e dove si rende necessario e all’igiene delle mani. Questo rallentamento può consentire alle strutture sanitarie di far fronte con minore affanno ai contagi e ai ricoveri.
Quindi andrebbe adottato ovunque, e non solo in certe aree a forte crescita dei contagi, l’obbligo di indossare la mascherina anche all’aperto?
A mio avviso no. I contagi all’aria aperta sono molto meno probabili che nei luoghi chiusi. Vorrebbe dire imporre un obbligo anche in contesti poco urbanizzati e l’eventuale vantaggio in termini di controllo epidemiologico non è così elevato. Il problema maggiore è che ancora oggi ci sono molte situazioni, per esempio in ambito lavorativo o nei locali pubblici, in cui non c’è la dovuta attenzione a seguire le regole.
È possibile invece che nel Nord Italia non si torni più ai tempi dell’emergenza più dura?
È verosimile, perché siamo più pronti ad affrontare la situazione, in quanto sappiamo che il virus sta circolando. A febbraio-marzo, quando in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna ci si è accorti che il Covid era presente nella popolazione, è stata una sorpresa, soprattutto per l’entità delle persone contagiate. Siamo stati presi alla sprovvista e questa ondata ha travolto i sistemi sanitari.
Oggi?
Ci sono un livello di attenzione, una programmazione e la possibilità di mettere in atto misure di contenimento e di contrasto. Anche se i numeri dovessero aumentare, penso che la situazione non dovrebbe sfuggire di mano.
A distanza di sette mesi dalla scoperta dell’epidemia che evidenze abbiamo sull’immunità? È vero, come sostiene un’indagine di Gimbe, che la Lombardia può essere considerata la regione oggi più “protetta”?
Può essere. Ma bisogna tenere presente due fattori. Da un lato, i dati che si conoscono: un’indagine sierologica condotta da Istat e ministero della Salute ci dice che la Lombardia è senz’altro la regione con il maggior numero di persone, il 7% – ma ci sono zone della regione in cui la prevalenza sfiora il 50%, come in alcuni paesi della Val Seriana, nella Bergamasca – che hanno sviluppato anticorpi. Ve sottolineato che il dato non solo è inferiore a quello che era lecito attendersi all’inizio, ma è anche lontano da quella che gli esperti indicano come la soglia, pari al 60-70% almeno, per raggiungere la cosiddetta immunità di comunità o immunità di gregge.
Il secondo fattore?
Alcuni ricercatori ipotizzano che non solo gli anticorpi creano immunità contro il coronavirus, ma in qualche misura anche le cellule del sistema immunitario, per esempio i linfociti T, possano garantire una protezione, perché, pur non specifiche contro il Covid, sono in grado di riconoscere un virus simile, per esempio quello dell’influenza classica, o si sono attivate per delle vaccinazioni.
Questo cosa significa?
Premesso che, pur in presenza di dati di laboratorio in tal senso, la teoria deve ancora essere confermata, se aggiungiamo all’immunità da anticorpi questa immunità aspecifica cellulare, che consente all’organismo di dare una risposta più pronta ed efficace all’aggressione virale, è possibile che in alcune aree della Lombardia la popolazione in qualche modo protetta dal virus possa essere intorno al 60%.
Questa ipotesi potrebbe quindi spiegare l’alta incidenza degli asintomatici o paucisintomatici?
È un’ipotesi contemplata. Stiamo ancora imparando tante cose di questo virus sconosciuto o poco conosciuto.
Il virus è ancora infettivo come lo era in primavera?
Occorre fare un distinguo. Per i virologi le caratteristiche del Covid non sono cambiate molto, a tal punto da renderlo meno capace di trasmettersi e contagiare le persone; la potenzialità infettiva è la stessa. Cambiano le dinamiche a livello della comunità della popolazione.
Vale a dire?
Se messe in atto, le misure di contenimento previste, compreso un maggior utilizzo dello smart working che riduce mobilità e occasioni di assembramento in posti al chiuso, dai trasporti pubblici agli uffici, vanno a impattare sulle possibilità e probabilità di trasmissione del virus. Per cui a parità di carica virale, è meno probabile che il virus si propaghi velocemente.
I casi positivi sono tornati ai livelli di cinque mesi fa. L’impennata è colpa della riapertura delle scuole e di vacanze e movide di questa estate?
La crescita precedente, calcolando un’incubazione di due-tre settimane, è certamente legata alle vacanze. In questi giorni invece si potrebbero osservare le prime ricadute della riapertura delle scuole. Ricordiamoci però che il dato del singolo giorno non ha molto valore, è molto influenzato da numero e geografia dei tamponi processati. Meglio guardare ai trend settimanali. Ma un aumento dei contagi era ampiamente atteso, non deve spaventare eccessivamente. Va monitorata la tipologia di popolazione che viene infettata: se il virus colpisce i bambini e i giovani, la ricaduta sul sistema sanitario non preoccupa e i rischi per i soggetti infettati sono bassi. Discorso completamente diverso se il contagio colpisce i soggetti più fragili. Al momento in molte regioni la situazione in ospedali e terapie intensive è abbastanza sotto controllo. Bisogna assolutamente evitare un aumento brusco.
I numeri della pandemia si concentrano su casi positivi, pazienti in terapia intensiva e decessi. Ma il trend dei guariti, di cui si parla poco, che cosa ci dice?
Il trend è positivo e sappiamo che la maggior parte delle persone guarisce quando non ha i sintomi della fase acuta della malattia. Non si pone l’accento sui guariti, perché l’attenzione è ovviamente concentrata sugli indicatori di attenzione e di allarme. Sta emergendo però che in alcune persone guarite dopo la fase acuta si evidenziano conseguenze e danni che possono anche durare mesi.
Pur non avendo un farmaco anti-Covid specifico, oggi il set di terapie disponibili può dirsi efficace e rassicurante?
Abbiamo farmaci abbastanza efficaci e tra l’altro conosciuti da tempo. La terapia che appare più efficace, nei pazienti che presentano i sintomi più gravi, è quella con i cortisonici, che riducono le possibilità di decesso.
Non era il remdesivir?
È un antivirale che può essere utile contro l’infezione del virus, ma la sua efficacia non è entusiasmante: diciamo che aiuta a ridurre di qualche giorno la durata della malattia, ma non sembra avere un impatto su indicatori clinici più importanti, come il rischio di essere ricoverati in terapia intensiva.
Uno studio ha rivalutato il ruolo dell’idrossiclorochina. Che ne pensa?
Gli studi che ne dimostrano l’efficacia in termini di riduzione della durata del ricovero e dei rischi di decesso sono, al momento, solo di tipo osservazionale. Studi più solidi sono abbastanza concordi nel dire che l’idrossiclorochina non dà grandi benefici.
In Italia è stato scoperto il primo caso di influenza in un bambino di 9 mesi a Parma, in anticipo rispetto all’arrivo abituale dell’influenza. Questo spinge ad anticipare la stagione delle vaccinazioni?
La decisione di anticipare la campagna vaccinale contro l’influenza è già stata presa e partirà intorno alla metà di ottobre. Non è comunque così inusuale che a inizio ottobre compaiano già i primi leggeri e sporadici sintomi dell’influenza.
È vero che vaccino anti-influenzale, vaccino per lo pneumococco e vaccino per la tubercolosi possono aiutare a difendersi dal Covid?
Alcuni vaccini, e alcuni più di altri, come quello contro la tubercolosi, il morbillo, la parotite o la rosolia, potrebbero ridurre il rischio di contrarre il Covid-19, perché stimolano l’immunità cellulare. Ma anche in questo caso i dati non sono conclusivi. E sul vaccino contro lo pneumococco i risultati sono contrastanti. Il vantaggio della vaccinazione influenzale potrebbe essere soprattutto per le persone a rischio, perché impedirebbe loro di contrarre contemporaneamente sia l’influenza che il Covid-19, il che sarebbe estremamente pericoloso.
A proposito di vaccino anti-Covid, dopo la decisione dell’Agenzia europea del farmaco di avviare la sperimentazione del candidato vaccino Oxford, dobbiamo aspettarci novità positive a breve?
Rispetto ai tempi, difficile fare previsioni. La decisione dell’Agenzia è un primo passo, ci vorrà tempo prima di arrivare all’autorizzazione, anche perché alcuni studi avanzati sono ancora in corso. Concordo con le stime dell’Oms: il vaccino non arriverà prima della metà del 2021.
(Marco Biscella)