Lo scorso 4 maggio, si è tenuto presso il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali una riunione dei ministeri interessati e delle parti all’esito della quale è stato deciso di prorogare l’applicazione del Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 del 6 aprile 2021.
È questo, come noto, un accordo delle parti sociali con il Governo con il quale sono state suggerite diverse misure prevenzionali al fine del contenimento della pandemia: per quanto ora, stando alle evidenze scientifiche, si tratti di situazione endemica piuttosto che pandemica, le parti intervenute hanno condiviso di ritenere operante il Protocollo nella sua interezza e di impegnarsi a garantirne l’applicazione.
Le misure suggerite sono di diversa natura, come l’invito ad avvalersi del lavoro agile o da remoto, l’incentivazione del ricorso a ferie e permessi, l’assunzione di protocolli anti-contagio, la sanificazione dei luoghi di lavoro e via dicendo, l’adozione di strumenti di protezione delle vie aeree; in sostanza, una serie di precauzioni cui oramai siamo (ahinoi!) abituati. In verità, alcune di queste indicazioni andranno rimodulate sulla scorta delle nuove disposizioni nel frattempo intervenute, come quelle che ad esempio rimettono al singolo datore di lavoro la decisione di indossare una mascherina nel luogo di lavoro.
A esse, si affiancano altre misure straordinarie, come la sospensione di reparti aziendali non indispensabili alla produzione, la limitazione dell’accesso ai luoghi comuni, il controllo della temperatura corporea, la preclusione dell’accesso a coloro che abbiano avuto contatti nei 14 giorni precedenti con soggetti positivi, e altre, che attualmente in realtà sono o sembrano essere superate, di fatto o di diritto.
Questa decisione, che al Governo e alle parti sociali non costa nulla e concede a chi l’ha assunta la patente di persone responsabili e coscienziose, conferma l’impostazione adottata sin dall’inizio di trasferire sui datori di lavoro (non senza una certa ragionevolezza) i costi e le decisioni delle politiche di contenimento del virus.
In realtà, l’occasione della recente riunione Governo/parti sociali consente di sollevare alcune osservazioni su alcuni aspetti:
1) Oggi, lo stato di malattia causato da infezione Covid mantiene, ovviamente, il trattamento previdenziale noto, ma non è più previsto che le assenze siano escluse dal periodo di comporto. Il che sembra corretto, considerando – come detto – che l’infezione da pandemica è ora diventata endemica. In altri termini, si prende atto che il coronavirus non si differenzia da qualunque altro stato di malattia ed è dunque soggetto allo stesso trattamento.
2) Viceversa, la quarantena, che è ora ridotta a casi molto ridotti (di fatto, ai non vaccinati e ai soggetti che hanno contratto il Covid che devono osservare un periodo di isolamento anche dopo un tampone negativo), non è più equiparata alla malattia e dunque non dà più diritto alla relativa indennità da parte degli enti previdenziali. In caso di quarantena il lavoratore deve dunque ricorrere a ferie o permessi. A meno che il medico curante, con lieve deviazione dal rigore formale, certifichi lo stato di malattia anche in assenza di positività. Il che però è contraddittorio con quanto detto nel punto precedente (ma forse si spiega con l’accanimento contro le persone che non si sono vaccinate).
3) Gli ispettori dell’Inps che effettuano le visite fiscali in caso di assenza per malattia del lavoratore, qualora il lavoratore dichiari loro di essere affetto da Covid, nei relativi verbali si limitano a indicare: Visita non espletata a motivo di fatti logistici o personali del lavoratore. E questo potrebbe indurre il datore di lavoro a pensare che il lavoratore fosse assente; d’altra parte, al lavoratore assente per malattia non si può chiedere la ragione della sua assenza (in particolare in caso di malattia), perché si tratta di dato sensibile ed egli potrebbe legittimamente opporre un rifiuto. Dunque, il datore dovrebbe “agire alla cieca” (e, in questi casi, normalmente si preferisce non agire affatto), non potendo valutare con cognizione di causa le conseguenze della visita non espletata.
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