Un centinaio di artisti, scrittori, giornalisti, e uomini politici, ha scritto una appassionata lettera aperta in difesa del Ministro Speranza, sostenendo che è vittima di una aggressione politica mentre sta combattendo contro il Covid-19. Giornali, telegiornali, talk show, social network, trattano soprattutto della pandemia, dando spazio a virologi che sono diventati delle vere e proprie star. In una parola, la comunicazione è diventata la vera cifra della pandemia, nel bene e nel male.



Chiediamo quindi di trarre un bilancio su questo fronte ad Alberto Contri, oggi docente di Comunicazione Sociale (ha insegnato alla Sapienza, al S. Raffaele, da 15 anni alla Iulm), per vent’anni presidente di Pubblicità Progresso e da cinquanta ai vertici di agenzie multinazionali e di associazioni del settore.



Per prima cosa le chiediamo un parere tecnico sulla comunicazione realizzata dalle istituzioni sul tema della pandemia.

Penso sia meglio stendere un velo pietoso su quanto è stato prodotto, come su gran parte della comunicazione pubblica del nostro paese. Raramente i ministeri si rivolgono a strutture di grande professionalità, a loro volta poco interessate a collaborare visti i budget sempre troppo esigui, e così il risultato è quasi sempre inevitabilmente modesto, anche perché dal lato della committenza ci sono raramente degli esperti di comunicazione, ma degli avvocati, dei capi-ufficio acquisti o al massimo dei giornalisti. Che fanno un mestiere ben diverso da quello dei pubblicitari. Fino ad arrivare al caso del sedicente comunicatore Casalino, che ha inoltre effettuato una torsione della comunicazione sulla pandemia ad esclusivo favore della popolarità del presidente Conte.



Che impressione le ha fatto la difesa a spada tratta dei cento firmatari della lettera aperta in favore di Speranza?

Mi pare un atto semplicemente politico: basta andare a vedere da che parte sono notoriamente schierati tutti i firmatari. Accusano altri di attaccare Speranza per motivi politici, ma poi lo difendono acriticamente per motivi di evidente schieramento. Inoltre sposano senza possedere alcuna competenza il mantra dei vaccini e dei lockdown come unica salvezza – che è il mantra di Speranza e dei virologi televisivi – che non corrisponde precisamente alla verità.

Non è forse così? Oltre a quella della comunicazione, in base a quale competenza lei avanza dei dubbi in merito?

Dei cinquant’anni passati finora lavorando nel mondo della comunicazione, 20 li ho impegnati guidando la sede italiana della Medicus Intercon, che era la più grande agenzia multinazionale specializzata in informazione alla classe medica. Con quello che ho dovuto studiare per poi spiegarlo ai medici, credo che potrei prendere un bel po’ di specializzazioni. Ho lavorato fianco a fianco con i più quotati ricercatori e clinici: il primo documentario scientifico che parlava dell’Aids lo facemmo a quattro mani con il famoso e autorevole prof. Aiuti. E ho imparato a conoscere a fondo il metodo di lavoro delle imprese farmaceutiche e il loro approccio alla ricerca dei farmaci.

Che sarebbe?

Per lunghi anni le aziende farmaceutiche hanno perseguito un bilanciamento tra la ricerca di farmaci di grande utilità e i relativi profitti, utili anche a remunerare le spese di anni di studio per farmaci che poi non hanno visto mai la luce. Profitti che si fanno ovviamente quando si scoprono molecole innovative che vengono poi usate su grande scala e per patologie molto diffuse. Questo è il motivo per cui ci sono pochi farmaci per le malattie rare. Venendo avanti negli anni, è stato sempre più difficile scoprire i cosiddetti breaktrough (farmaci/salto di qualità), mentre le azioni delle imprese sono passate di mano dalle famiglie dei fondatori (come ad esempio, Fritz Hoffman-La Roche o Wallace Calvin Abbott), a fondi di investimento come BlackRock, che, guarda caso è presente nell’azionariato di Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson, ecc. Avendo come unico obiettivo il profitto, è ovvio che un fondo di investimento spinga le imprese a cercarlo dove si può trovare. La pandemia è stata un’occasione da cogliere al volo.

In che modo?

Promuovendo il mantra “o vaccino o morte”, diffondendo ritrovati di cui per la grande accelerazione della ricerca non si sono potuti fare gli adeguati controlli di follow up (in una parola non si conoscono le reazioni a lungo termine), e muovendo una lobby che riesce a spingere Youtube a censurare una recente intervista al Premio Nobel Montagnier, colpevole di aver dubitato in passato dell’origine del vaccino per zoonosi (dall’animale all’uomo). Che i vaccini siano utili è indiscutibile, ma perché censurare una scuola di pensiero scientifico che sostiene che vaccinare durante una pandemia invece di concentrarsi sulle cure è addirittura controproducente? 

Molti governi hanno invece diffuso il mantra “o lockdown o morte”.

Vero, ma è solo di qualche giorno fa la presa di posizione di tre indiscusse autorità delle università di Harvard, Stanford e Oxford (i professori Kulldorff, Bhattacharya e Gupta) che hanno denunciato non solo il fallimento della strategia dei lockdown, ma anche il clima di intimidazione che accademici, media e politici stanno alimentando contro coloro che osano mettere in discussione l’efficacia dei lockdown, da loro ritenuti “il più grande fallimento di salute pubblica della storia.”. 

L’ex ministro della Sanità francese Philippe Douste-Blazy, ha denunciato apertamente in una intervista televisiva la grande pressione di Big Pharma sulle riviste scientifiche, anche le più blasonate. 

È un fenomeno noto, purtroppo. Come è noto che fior di accademici partecipino adeguatamente remunerati ai convegni di presentazione dei farmaci alla classe medica. O accettino di svolgere ricerche mirate per questa o quella terapia. Non c’è da scandalizzarsi se tutto rimane all’interno di un accettabile rapporto scienza/contributi alla ricerca/profitti. Ma ci sono economisti di vaglia che sostengono che proprio grazie all’avidità dei fondi di investimento questo rapporto si sta modificando troppo a favore del profitto. 

Tornando alla comunicazione, lei ha stigmatizzato la poca trasparenza dei più noti siti di debunking, vale a dire i cosiddetti siti antibufale.

Si, perché dovrebbero essere i primi a brillare per trasparenza, dichiarando chi li sostiene economicamente. Ma non lo fanno, e quando lo fanno, si arriva all’assurdo di un sito finanziato da Google e Facebook e da due società di intermediazione pubblicitaria digitale, che distribuisce patenti di falsità a chiunque osi sollevare anche solo qualche dubbio sul tema vaccini. È assai pericoloso che Facebook, Google e Youtube si arroghino il diritto di cancellare o ridurre la visione di post non in linea con il mantra mainstream. Essendo di fatto monopolisti, sono in grado di orientare l’opinione pubblica a seconda del volere di chi li paga. È la trasposizione nel mondo social del modello di lobby descritto dall’ex ministro francese Douste-Blazy.

Intanto il ministro Speranza è riuscito a imporre nuovamente il protocollo “Tachipirina e vigile attesa” che il Tar del Lazio aveva sospeso su richiesta di diverse associazioni di medici che stanno sperimentando l’efficacia di cure domiciliari precoci. Nonostante che questi approcci terapeutici siano applicati dal direttore scientifico del Mario Negri Prof. Remuzzi, dal prof. Cavanna e da molti altri clinici italiani e stranieri. 

È una storia sempre più strana, per non dire imbarazzante: i primi studi empirici su questi approcci, sperimentati da centinaia di medici di base, dimostrano che – se presi in tempo – la maggioranza dei malati di Covid19 possono guarire senza dover essere ospedalizzati. I medici del network IppocrateOrg hanno raccolto finora una casistica di 13.000 pazienti curati con successo a casa loro. L’avvocato Grimaldi, che aveva ottenuto la sospensione dal Tar, si dice scandalizzato dal comportamento di un ministro che non informa del ricorso al Consiglio di Stato il proprio Sottosegretario (Prof. Sileri), e proprio mentre quest’ultimo stava coordinando un tavolo di lavoro per fare finalmente incontrare i medici del territorio con rappresentanti delle Istituzioni della salute. Non solo: il ministro ha affidato ad un altro Dipartimento – senza nemmeno dirlo al suo Sottosegretario Sileri – l’incarico di stilare un nuovo protocollo, quasi uguale al precedente, che comporta ancora l’uso della Tachipirina e la vigile attesa, più qualche piccola concessione, scritto però nella maniera complessa e circonvoluta tipica del lessico del prof. Locatelli. Illustre clinico, ma assai scarso e spesso incomprensibile come comunicatore. 

Un comportamento perlomeno strano

Un comportamento che si potrebbe dire persino tignoso, che stupisce in un ministro della Repubblica il quale, difendendosi in Senato dalla mozione di sfiducia, ha richiamato la necessità di stare uniti mentre ha appena sfacciatamente snobbato la più importante componente di medici di base e clinici illustri che stanno ottenendo risultati lusinghieri curando i pazienti a domicilio. Interpellato da Floris a DiMartedí sul nuovo protocollo, il prof. Remuzzi si è dimostrato visibilmente imbarazzato. Ovviamente si ê ben guardato dal polemizzare con Ministero della Salute e Cts, ma alla fine, con molta signorile pacatezza ha confermato di “non voler prendere in considerazione l’impiego della Tachipirina in quanto addirittura controproducente, e di aver avviato uno studio sull’impiego dell’ivermectina” il cui impiego è escluso categoricamente dal protocollo ministeriale. Ecco perché sui social sono immediatamente comparsi commenti di questo genere: “Lo dicano, allora, che vogliono che la gente si ammali gravemente e vada in ospedale. Cosí possono continuare a imporci chiusure e limitazioni delle libertà costituzionali”. Vox populi. Che è una bruciante risposta alla lettera dei cento firmatari.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori