Il Covid potrebbe favorire l’invecchiamento cerebrale. La notizia, certamente non positiva, giunge direttamente da uno studio pubblicato su “Nature Aging” dai ricercatori diretti da Maria Mavrikaki del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston. Come riportato dal “Corriere della Sera”, esso indica che, nei casi più gravi, “la prolungata infiammazione potrebbe indurre un invecchiamento cerebrale pari a 10-20 anni, testimoniato dal riscontro nel cervello degli infettati di marcatori simili a quelli della senescenza, accompagnati da mutazioni dei geni che producono i neuroni dei circuiti cerebrali della cognitività e le loro reti nervose”.



Dell’invecchiamento cerebrale connesso al Covid non è esattamente la prima volta che si discute. Un anno fa i ricercatori canadesi della Queen’s University di Kingston segnalarono per primi la cosiddetta PASC, l’odierno Long Covid, caratterizzato da “vari sintomi, fra cui una sensibile compromissione cognitiva che, come finora si pensava, deriverebbe dalla prolungata infiammazione indotta dal contagio, con sequele che si protraggono a distanza di 1-4 mesi, soprattutto per quanto riguarda la sfera psichica”.



COVID FAVORISCE L’INVECCHIAMENTO CEREBRALE? L’INDIZIO “BRAIN FOG”…

Nell’aprile 2021 il gruppo di Michele Spinnici dell’ospedale “Careggi” di Firenze annoverò tra i sintomi del Long Covid anche la cosiddetta “brain fog”, la nebbia cerebrale, che si traduce nella sensazione di testa “vuota” associata contestualmente a confusione, disorientamento e difficoltà a concentrarsi.

Secondo il “Corriere della Sera”, la nebbia cerebrale potrebbe rappresentare l’anticamera dell’invecchiamento cerebrale favorito dal Covid, stando alle alterazioni appena scoperte dai ricercatori americani. Al congresso dell’American Academy 2022 i ricercatori della California University diretti da Alexis Oddi hanno evidenziato anche nei soggetti PASC con infezione lieve elevati livelli di attivazione immunitaria e dei marker immuno-vascolari, a conferma dell’importanza rivestita dall’infiammazione in questa sindrome diventata Long Covid nella nuova nomenclatura. Un riscontro che, unito a quanto ora evidenziato dai ricercatori di Boston, potrebbe ulteriormente allargare la platea dei soggetti a rischio”.