DA LONDRA – Da lunedì in Inghilterra è ufficialmente entrato a regime un nuovo sistema di restrizioni (three-tyer lockdown system – sistema di lockdown a tre livelli) finalizzato a contenere e, possibilmente ridurre, la crescita dei contagi di coronavirus nel Paese: la strategia è quella di implementare lockdown a livello locale con misure proporzionali alla gravità della situazione (allerta media, elevata, molto elevata). Situazione che, dati alla mano, appare preoccupante: il 13 ottobre si sono registrati nel Regno Unito 17.234 casi di contagio, 655 ammissioni ospedaliere e 143 morti (non si registravano più di cento morti da metà giugno).



Prima di provare a offrire un paio di spunti di riflessione per comprendere il ritorno in Inghilterra a una fase critica della pandemia (e, guardando i numeri, peggiore di tanti altri Paesi europei) è importante ricordare una questione cruciale, cioè quella di una accurata lettura dei dati. Prendiamo l’esempio del rapporto tamponi effettuati/numero di contagi: il 12 ottobre in Gran Bretagna sono stati effettuati 258.955 tamponi e si è registrato un numero di contagi pari a 13.972; lo stesso giorno l’Italia ha effettuato 85.442 tamponi con un numero di contagi pari a 4.619. Nel Regno Unito la percentuale di contagi è stata quindi pari al 5,3% dei tamponi effettuati, mentre in Italia è stata pari al 5,4%: una situazione molto più simile di quella che i numeri assoluti sembrano suggerire.



Fatta questa premessa, di seguito si vogliono sinteticamente discutere due fattori “politico-contestuali” che, tra tanti altri elementi, stanno contribuendo a determinare la cosiddetta seconda ondata in Inghilterra.

Il primo riguarda l’aspetto della comunicazione (e della conseguente fiducia/sfiducia della popolazione nei confronti dei governanti). Nei mesi intercorsi dall’inizio della pandemia fino ad oggi il governo inglese è incappato in diversi “intoppi” comunicativi che ne hanno, nel tempo, intaccato la credibilità: si possono ricordare, ad esempio, il cambio di vedute relativo all’uso delle mascherine (prima sconsigliato e poi raccomandato), il famoso viaggio di Dominic Cummings (consigliere del primo ministro) nel nord dell’Inghilterra durante il lockdown a marzo o l’attuale inadeguatezza del sistema di “test and trace” (che, a detta del gruppo di lavoro scientifico che consiglia il governo, sta avendo un effetto marginale nel contrastare l’epidemia). Lo stesso primo ministro ha rilasciato diverse dichiarazioni negli ultimi tempi che si stanno rivelando di difficile realizzazione (come il piano per arrivare a 500mila tamponi entro fine ottobre o l’obiettivo, dichiarato a luglio e ritrattato a settembre, di tornare a una sorta di normalità di vita entro Natale).



Il secondo riguarda la “confusione” relativa a numerose misure implementate per contenere e ridurre la diffusione del virus. Si pensi, ad esempio, ai lockdown locali che sono stati implementati in diverse aree del Paese tra l’estate e i giorni scorsi, che prevedevano l’applicazione di diverse misure a seconda delle diverse località. Misure che, in alcuni casi, sono state introdotte in alcune aree con un certo numero di contagi per 100mila abitanti, ma non in altre località con un numero di contagi superiore; misure che, in alcuni casi, sono risultate abbastanza contraddittorie (per esempio, secondo la “regola dei 6”, nel nord dell’Inghilterra non era possibile per una famiglia di 6 persone invitare a casa propria un parente, ma era possibile per un membro della famiglia andare al pub con altri cinque amici).

Si pensi anche alla confusione generata da altri messaggi quantomeno contraddittori da parte dell’esecutivo, ad esempio l’insistenza sull’utilizzo delle mascherine, salvo poi non renderla obbligatoria nelle scuole (a parte nelle scuole secondarie in casi specifici) o negli uffici, oppure la difficoltà nel giustificare alcune decisioni (per esempio la chiusura dei pub alle dieci di sera).

Entrambi questi elementi (errata comunicazione e confusione) hanno contributo da una parte a intaccare la credibilità nell’esecutivo (secondo una recente ricerca di Ucl, la percentuale di persone che ha perso fiducia nella capacita del governo di gestire efficacemente la pandemia è più che raddoppiata da marzo a settembre, passando dal 25% al 56%, e dall’altra, probabilmente, ha contribuito a ridurre la buona volontà delle persone nell’aderire a regole e raccomandazioni (si pensi, ad esempio, agli assembramenti di persone nelle strade dopo le chiusure serali dei pub o l’elevato numeri di contagi tra gli studenti universitari).

Una delle grandi sfide per l’esecutivo adesso è proprio quella di mettere in campo misure chiare, semplici, coerenti, giustificate e con una prospettiva a medio-lungo termine che possano incrementare la fiducia delle persone e l’adesione alle misure in modo da evitare un lockdown nazionale (o lockdown locali di grado 3, molto elevato) che avrebbero conseguenze devastanti sull’economia e sull’occupazione.

Come se non bastasse, non bisogna poi dimenticare l’altra grande sfida che attende il Paese nei prossimi mesi, cioè la Brexit: diciamo che per il governo si prevede un inverno caldo, nonostante le temperature.

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