Caro direttore,
sono appena tornato da un viaggio a Londra per visitare miei famigliari. Devo confessare che sono partito con qualche preoccupazione, date le notizie che provenivano dal Regno Unito sul notevole aumento dei casi di Covid. Agli aeroporti, sia in partenza che in arrivo, la situazione sembrava tuttavia abbastanza normale, con tempi allungati malgrado la minore affluenza.
Appena arrivato ho dovuto fare un tampone, piuttosto costoso, il cui esito negativo mi ha evitato la quarantena di cinque giorni. Tampone peraltro richiesto anche dall’Italia per il mio rientro e, a parte i costi, un po’ seccante per i vari documenti da compilare e presentare ai controlli.
Tutto sommato, non una grande differenza con la prassi normale, pur con un discreto allungamento dei tempi. Anche a Londra non sono apparse notevoli differenze rispetto alla precedente visita, subito prima della chiusura per il Covid. Devo però precisare che le mie visite avvengono in un quartiere nell’est di Londra, una zona un po’ diversa da quelle note ai turisti italiani, ma forse per certi versi più vicina alla realtà inglese.
Questa cittadina, che fa parte della Grande Londra, è caratterizzata da una grande mescolanza di provenienze: dal continente europeo, in particolare polacchi e lituani, dall’Africa, dai Caraibi, dall’India, dal Pakistan e da altri Paesi asiatici. Una moltitudine che continua a vivere per molti aspetti secondo le culture di origine, combinandole però con i modi di vivere britannici.
Come da noi, anche qui del distanziamento sociale rimangono solo le indicazioni e gli assembramenti sono tutt’altro che rari, vedasi i pub. La mascherina è vivamente consigliata nei luoghi al chiuso, ma rimane una scelta individuale. Sui mezzi pubblici che ho avuto occasione di prendere, solo un po’ più della metà dei passeggeri la indossava, senza che ciò ponesse problemi. Di documenti tipo green pass non ne ho sentito parlare, se non male, e penso ne sarebbe difficile un’applicazione all’italiana.
Una maggiore attenzione all’uso delle mascherine avviene nei supermercati e, ancor più rigorosamente, nelle chiese, almeno quelle cattoliche, non avendone frequentate altre. Nella “mia” parrocchia, non vi era nessuno che non la indossasse durante le funzioni e nelle riunioni. Queste ultime, come da noi, potevano essere in presenza o da remoto e l’impressione è che quest’ultima modalità fosse prevalente, ma ciò non significa necessariamente una precauzione da Covid. La maggior parte dei parrocchiani non abita in vicinanza della chiesa e le distanze a Londra non sono comunque trascurabili.
Quindi, almeno come esperienza diretta, perciò limitata, non ho riscontrato quella diffusa preoccupazione che si penserebbe logica in una situazione di aumento non risibile di contagi. Tra l’altro, malgrado la minore percentuale di vaccinati, la mortalità da Covid non parrebbe in proporzione molto dissimile dalla nostra. Comunque, tutto sembra essere affidato non tanto agli ordini del governo, ma alla responsabilità e coscienza dei singoli e delle comunità di appartenenza. Nel bene e nel male.
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