“Covid, dalla variante inglese un pericolo per i bambini”. Così ha titolato l’altro ieri Repubblica, lanciando un nuovo allarme. È davvero così? “Il titolo spaventa la popolazione – risponde Mattia Doria, medico pediatra e membro del Comitato scientifico della Federazione italiana medici pediatri (Fimp) -, ma al momento non abbiamo nessun elemento né clinico né epidemiologico che ci autorizzi a dire che la ‘variante inglese’ del Sars-CoV-2 sia più pericolosa per i bambini. Quello che i dati preliminari sembrano attestare è che questa variante sembra diffondersi più velocemente, anche tra i bambini, al netto di una manifestazione clinica sovrapponibile a quella già nota”.
Questa variante sta circolando da tempo?
È assolutamente lecito ritenere che, al netto dell’identificazione relativamente recente e quasi casuale di questa variante, essa stia circolando, come probabilmente altre varianti, da tempo.
Nelle Marche è stato rintracciato un positivo con la variante inglese pur non avendo avuto contatti diretti con il Regno Unito. Come si spiega?
Non mi sorprende il caso di un positivo alla variante inglese che apparentemente non ha avuto contatti con la Gran Bretagna, perché quel soggetto lo avrà sicuramente contratto da qualcun altro che è stato a Londra e non ha avuto la malattia, ma è stato solo un portatore, come purtroppo succede oggi.
Quanto dobbiamo temere questa variante del Covid, in uno scenario che vede il tasso di positività bloccato intorno all’8-9%?
A priori può costituire un rischio. Ciò che sta accadendo deve tuttavia essere comunicato con pacatezza, senza anticipare scenari apocalittici di difficile previsione.
I numeri ancora alti dei contagi non aiutano però alla pacatezza…
Ciò che sta accadendo deve responsabilizzarci tutti a un rigoroso rispetto delle norme, a tutti note, utili al contenimento della diffusione del virus: dispositivi di protezione delle vie aeree, igiene delle mani ed evitare assembramenti con non conviventi, anche se familiari. Tutti conoscono queste norme, ma un numero non sufficiente di persone le mette in pratica con attenzione e responsabilità: ecco perché il virus continua a diffondersi. Ed ecco perché nelle realtà dove si sono messe in atto strategie pubbliche di riduzione delle occasioni di assembramento l’indice di diffusione si è ridotto sensibilmente. Dobbiamo ricordare sempre che, a fronte di una percentuale relativamente piccola, rispetto al totale dei contagiati, che va incontro a una forma grave di Covid-19 tale da necessitare di cure ospedaliere e/o terapia intensiva, è la numerosità complessiva dei contagiati che, se continua ad aumentare, fa aumentare proporzionalmente anche la percentuale di chi avrà una forma grave, mettendo in difficoltà il Servizio sanitario nazionale nell’erogazione di una assistenza adeguata.
Intanto arrivano i primi vaccini. Eliminano veramente il rischio di malattia da quasi ogni persona oppure sono selettivi, ossia ad alcune persone danno immunità certa e ad altre meno?
Come per tutti i vaccini, non è possibile avere una protezione del 100% della popolazione, non perché il vaccino è selettivo, ma perché può essere diversa la capacità di risposta del sistema immunitario del singolo. I vaccini per essere utilizzati sulla popolazione devono aver superato tutti gli step di sicurezza e quelli preliminari di efficacia.
In che senso?
Premesso che nessuno in questo momento può sapere con certezza la durata della copertura del vaccino, di per sé sono efficaci, ma poi bisogna valutare la risposta del singolo e del suo sistema immunitario. Capita più o meno quello che avviene con una malattia: c’è chi si ammala di Covid in modo lieve e chi invece reagisce con gravi compromissioni fino al decesso.
C’è il rischio che il vaccino anti-Covid, realizzato con l’innovativa tecnica a Rna, possa lasciare profondi effetti collaterali?
No. Senza entrare in specificazioni scientifiche difficili da masticare e governare, che possono creare ansia in chi non ha le competenze adeguate, vale la stessa regola dei ponti. Un ingegnere può entrare nelle specificità tecniche legate allo loro costruzione, ma è facile perdersi, quel che conta è che invece mi rassicuri sul fatto che il ponte è costruito bene e che ci si può passare sopra con l’auto. La campagna vaccinale è un’azione di sanità pubblica, poi ciascuno andrà a chiedere al proprio medico informazioni, perché va tenuto presente anche un risvolto di sanità personale. Toccherà a noi medici che lavoriamo sul campo il compito di trasferire, a livello accessibile, le informazioni ai singoli pazienti.
A chi va inoculato prima il vaccino perché più a rischio? Meglio partire dal personale sanitario e dagli anziani o dai giovani?
In assoluto va inoculato prima a chi deve prendersi cura di chi si ammala di Covid. Ricordiamoci che ben 270 medici sono deceduti in questi nove mesi, siamo il paese che ha subito la maggior decimazione di medici, e non solo in ospedale, anzi: questo virus non guarda in faccia se uno lavora in ospedale o sul territorio. E poi va inoculato in chi si ammala in maniera più grave, fino al rischio di decesso. Trovo assolutamente sensata questa strategia.
E gli adolescenti, che sono considerati facili diffusori del virus?
Mi piacerebbe sapere chi diffonde di più o di meno il virus… Purtroppo, come pediatri del territorio, abbiamo chiesto di avere dei dati specifici, ma senza esito. Gli unici dati a cui possiamo accedere sono quelli della Protezione civile, dell’Iss e del ministero della Salute.
E non vi bastano?
Nella fascia giovane noi abbiamo dati aggregati 0-19 anni. Non è pensabile che ci sia una singola fascia di vent’anni che li prende tutti, perché il bambino di 6 mesi è diverso biologicamente dal bambino di tre anni, che a sua volta è diverso da uno di 6, di 10 o di 13 anni. Che differenza di prevalenza c’è, per esempio, negli asili nido e nelle scuole materne, dove i bambini sono senza protezione, rispetto a scuole elementari, medie o superiori? Sarebbero informazioni utili anche per trovare adeguate raccomandazioni e delineare una efficace organizzazione dei servizi.
Secondo l’infettivologo Massimo Galli, “è evidente che una volta fatta la seconda dose, avendo gli anticorpi, i vaccinati avranno anche dei ‘privilegi’. Si sarà nella condizione di essere molto più liberi nei confronti di qualsiasi restrizione rispetto alle persone che continueranno a non essere vaccinate”. È così? I vaccinati non porteranno più la mascherina?
Tutto sta nella numerosità delle persone che vengono vaccinate. Nella fase iniziale della campagna saranno molte di più le persone non vaccinate di quelle vaccinate. Va da sé che è importante che tutti utilizzino le misure di protezione. Per esempio, io con la vaccinazione mi sentirò più tranquillo nel visitare i miei pazienti, ma non mi toglierò la mascherina. Innanzitutto, perché il vaccino ha elevata copertura ma c’è anche una piccola percentuale di soggetti che potrebbero non rispondere in modo adeguato con il proprio sistema immunitario. In secondo luogo, è una forma di esempio che continueremo a dare alla popolazione. Se vedremo gente con o senza la mascherina, sarà sempre possibile distinguere chi avrà fatto il vaccino e chi no?
Come medici di base sarete coinvolti nella somministrazione dei vaccini? E avete già ricevuto istruzioni su come preparare le dosi?
Le prime forniture di vaccino saranno costituite da dosi che dovranno essere ricostituite in fiale da inoculare. In ogni struttura sanitaria ci saranno delle squadre di operatori formate per questa operazione, che poi il medico vaccinatore inoculerà ai cittadini. Noi pediatri di famiglia non siamo ancora stati contattati per ovvi motivi: sappiamo che i bambini saranno gli ultimi ad avere il vaccino.
Le due ondate di Covid hanno messo a nudo la fragilità della medicina territoriale. Che cosa è stato fatto tra la prima e la seconda ondata?
Questo virus si ferma soltanto agendo sul territorio con la prevenzione. Durante la prima ondata è stato fatto tutto il contrario: sul territorio non avveniva alcuna azione di filtro, mentre nel periodo estivo non è stato realizzato il potenziamento delle strategie di riconoscimento precoce del virus.
Perché?
Non certo per inefficienza o incompetenza dei medici i del territorio, ma perché non c’erano dispositivi né strumenti adeguati. Dieci mesi fa era difficile eseguire un tampone ed era impossibile farlo in tempi rapidi, bisognava aspettare di avere sintomi significativi e per l’esito serviva anche una settimana. Ma capisce bene quanti danni può fare in una settimana un virus così contagioso.
In vista della temuta terza ondata che cosa andrebbe fatto adesso?
I medici di medicina generale e i pediatri di famiglia sono disponibili a dare il loro contributo, ma devono essere garantiti ovunque i presidi di protezione per poter lavorare in modo sicuro e far sì che in tutta Italia i casi segnalati vengano sottoposti precocemente al tampone, anche quando i soggetti presentano sintomi relativamente lievi, come nei bambini, perché è proprio lì che il virus si annida e si diffonde. Infine, bisogna mettere in atto strategie di sanità pubblica legate al contenimento della socialità, che a volte diventa una misura indispensabile.
(Marco Biscella)