Il piano del Cts, il Comitato tecnico-scientifico che nei giorni in cui scoppiava l’epidemia di coronavirus in Italia è stato chiamato a scegliere la linea che il Paese avrebbe poi seguito per contenerne la diffusione, doveva restare segreto. A metterlo per iscritto, nero su bianco negli atti ufficiali, lo stesso Cts il 2 marzo scorso: una scelta motivata dalla necessità di mantenere riservato il contenuto di misure che avrebbero potuto creare scompiglio nell’opinione pubblica. Quei documenti, di cui sono stati pubblicati ieri pomeriggio i primi 95 verbali sul sito della Protezione civile, svelano i passaggi cruciali di una fase quanto mai delicata, nel quale non sono mancate le tensioni tra gli scienziati e il commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri. Nel verbale numero 15, risalente al 2 marzo, al decalogo di comportamenti per la popolazione, si fa cenno al “Piano di organizzazione della risposta dell’Italia in caso di epidemia”, con la raccomandazione che resti secretato. Due giorni dopo il Cts invita ad aggiornarlo “in considerazione dell’avvenuta evoluzione della dinamica epidemiologica nel Paese”, pur confermando che il documento doveva “essere considerato secretato”. A chiarire il motivo di tanta riservatezza le parole rilasciate il 21 aprile dal direttore generale del ministero della Salute, Andrea Urbani, al Corriere della Sera. Svelando l’esistenza del piano segreto, composto di tre scenari di cui uno troppo drammatico per essere divulgato a cuor leggero, Urbani disse: “La linea è stata non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio”.



COVID, VERBALI CTS: “PIANO RESTI SEGRETO”

Dai verbali emergono anche tutte le incertezze degli stessi esperti, con stop and go riguardanti l’uso delle mascherine, le politiche sui tamponi e la chiusura delle scuole. Quando il ministro Speranza chiede un parere sull’opportunità di mandare a casa gli studenti di ogni ordine e grado in tutto il Paese, il 4 marzo il Comitato tecnico-scientifico scrive che “non esistono attualmente dati che indirizzino inconfutabilmente sull’utilità di chiusura delle scuole….”. Il verbale del 7 marzo è invece uno dei più corposi: quello è il giorno in cui gli scienziati chiedono di superare la distinzione tra zone rosse e gialle, imponendo una stretta ulteriore per la Lombardia e le province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova e Treviso, Alessandria e Asti. Restrizioni e misure che tre giorni più tardi verranno estese all’Italia intera. Il primo scontro istituzionale ha luogo il 15 marzo, in pieno lockdown, quando il Cts invoca “con fermezza” una norma di salvaguardia che tuteli l’operato dei suoi membri, altrimenti “il Cts rassegnerà in maniera unitaria le dimissioni”. I tanti omissis contenuti nel documento del 3 maggio sono la prova delle tensioni nella seduta che vede presenti, in ordine alfabetico, il coordinatore Agostino Miozzo e poi Ciciliano, Antonelli, Bernabei, Iavicoli, Ippolito, Magrini, Richeldi, Sebastiani, Urbani e Villani. In videoconferenza ci sono Brusaferro, D’Amario, Dionisio, Guerra, Iachino, Locatelli, Maraglino e Zoli. Presenti anche la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa, la dottoressa Adriana Ammassari (Aifa) e il capo di gabinetto del ministro della Salute, Goffredo Zaccardi. La seduta si apre con una “accesa discussione” sul ruolo e la funzione del Cts: “Grande preoccupazione e profondo rammarico sono emersi da parte di tutti i componenti del Comitato, in ragione di alcune note pervenute dal commissario (Arcuri, ndr), interpretabili come una delegittimazione del lavoro svolto dal gruppo in ragione di presunti ritardi da lui imputati al Cts”. Le accuse riguardano il reperimento delle mascherine, che spetta ad Arcuri: gli scienziati non vogliono assumersi la responsabilità della “eventuale mancanza”. Per questo chiedono a Speranza di rivedere il loro mandato, altrimenti si dimetteranno. Ma il passaggio del 13 marzo dà l’idea di come ci si sia mossi inizialmente senza troppe certezze. Basti pensare che nel verbale viene sottolineato che “non vi è evidenza per raccomandare indiscriminatamente ai lavoratori di indossare mascherine chirurgiche”. Parole che rilette oggi suonano quasi come una bestemmia.

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