È rimasto solo Mattarella a temere il rimpasto. Le crepe, le incertezze, in alcuni casi l’assenza di coraggio di una compagine di governo logorata da mesi di gestione straordinaria, stanno rapidamente prendendo il sopravvento.

La pausa estiva e i buoni dati della gestione dell’epidemia avevano illuso Conte di poter tirare dritto. Poi la parentesi elettorale e il respiro di sollievo tirato dopo il risultato deve averlo spinto a pensare che il pericolo fosse stato scansato.



L’impennata dei contagi ha invece fatto da detonatore, riportando in evidenza tutti i limiti di un governo nato con ben altre ambizioni. Il paese non si può chiudere. Sarebbe una scelta letale. Però la rapida risalita dei contagi non era così scontata. Si è perso del tempo prezioso e ci sono pezzi della macchina che hanno lavorato male, qualcuno si è addormentato sugli allori. Non è così difficile capire di chi si tratta. Per mesi abbiamo inseguito sciocchezze come i banchi singoli con le rotelle, non siamo riusciti ad usare le tecnologie per aiutare l’azione di tracciamento, la semplificazione amministrativa si è rivelata poco più di una parodia, anche i dossier considerati chiusi si sono riaperti, come nel caso di Autostrade, come scatole mal costruite; ministri dispersi, di cui nessuno ricorda più il nome.



Quindi i punti deboli del governo sono lì davanti agli occhi tutti: Arcuri, Azzolina, De Micheli, Costa, Pisano, Dadone, solo per fare un primo elenco di predestinati ad uscire che nessuno pronuncia ad alta voce ma su cui alla fine convengono tutti. E poi è esasperante la lentezza di Conte, un metodo di governo ormai inadatto che mal nasconde il tentativo di accentrare nelle proprie mani ogni decisione. Così facendo ha ormai esasperato tutta la maggioranza. Come spesso capita, dopo aver festeggiato per il voto regionale, sono esplosi i problemi, e non c’è tempo per rilassarsi. Lo ha capito perfino Zingaretti, il vincitore incontestato del voto di settembre, che sente di avere ormai l’obbligo di dettare le prossime mosse.

Paradossalmente l’occasione per dare inizio al chiarimento è venuta proprio da De Luca. La scelta un po’ azzardata del governatore di chiudere da solo tutte le scuole della Campania ha provocato una reazione sproporzionata dell’Azzolina. Dopo poche ore tutto il gruppo dirigente del Pd, come non era mai successo, si è schierato con il governatore campano. Dal segretario a Franceschini, da Orlando agli ex renziani. Come è stato possibile? In realtà i leader del Pd non aspettavano altro. Un’occasione, un pretesto, un motivo qualsiasi, per dire a Conte che aveva esaurito la loro pazienza.

Zingaretti e il gruppo dirigente del Pd è oggi molto compatto. La vittoria ha contribuito a chiarire le idee al proprio interno e a definire anche le aspettative personali di ogni singolo leader. Anche il rapporto con gli alleati gode di ottima salute. Mai come in questi giorni l’intesa con i leader che contano dei 5 Stelle (al netto ovviamente del ribelle Di Battista) tende al positivo e si sta ragionando su cosa fare per stravincere le prossime amministrative. Ma anche il rapporto con Renzi – ora che è chiaro che il progetto di Italia Viva non intacca minimamente il Pd – è diventato improvvisamente molto ragionevole. Il problema è che ora nessuno può più sbagliare.

La prima cosa da fare è gestire la crisi pandemica assumendo senza perdere tempo provvedimenti drastici, sulla falsa riga di quanto stanno facendo in Francia e Germania. Il vantaggio sugli altri paesi europei ormai è effimero e conviene adeguarsi alle scelte a cui sono costretti in queste ore gli altri leader europei.

La maggioranza ha chiaro che Conte non ha la possibilità di ripetere quanto fatto di positivo nei primi mesi dell’anno. Bisogna ridare centralità al Parlamento, riaprire in quella sede un dialogo con l’opposizione, almeno quella che il dialogo è disposta ad accettare. Poi bisogna dialogare di più con le parti sociali, non si può lasciare che un governo e una maggioranza ormai solidissima si faccia intimidire da una Confindustria filo-salviniana. Infine bisogna sbloccare il Mes, anche perché la trattativa sul Recovery Fund rischia di arenarsi ancora per qualche mese.

Poi occorre utilizzare le settimane che ci attendono – dove potremmo al massimo andare a lavorare e poi chiuderci in casa alle 21 – per scrivere progetti realistici e spendibili, su cui ridurre al minimo i tempi di progettazione, attrezzare la pubblica amministrazione a spendere 10 volte di più di quello che riesce a fare oggi. Per poi provare a partire con slancio appena saranno disponibili i vaccini e facendo leva sull’anima produttiva e manifatturiera del paese.

Zingaretti ha deciso che in ogni caso non entrerà nel nuovo governo. È probabile che toccherà ad Andrea Orlando rappresentare il Pd nella prossima compagine governativa. Anche Delrio vorrebbe lasciare la direzione del gruppo e rientrare a dirigere il suo vecchio ministero. Franceschini ha nel mirino il seggio più alto della Camera, che potrebbe rendersi disponibile a breve nel caso che Roberto Fico accettasse di candidarsi a Napoli.

Se il presidente della Camera decidesse di correre a sindaco della sua città aprirebbe la strada a candidati di area Pd a Torino e Bologna, alla riconferma di Beppe Sala a Milano e a riaprire il “caso Roma”. La vicenda romana ha ormai un valore generale e la questione rischia di ingarbugliarsi più del necessario. Intanto perché se le cose rimangono ferme ad oggi – cioè la Raggi candidata e il Pd che non trova un nome di prestigio disponibile – potrebbe alla fine toccare proprio al segretario del Pd sfidare la sindaca uscente e isolare così Calenda. Calenda è per il Partito democratico una proposta inaccettabile. In fondo per una ragione molto semplice: perché il Pd dovrebbe sostenere un signore che si è preso i voti per farsi eleggere in Europa e poi si è fatto un suo partito, è uno dei più feroci oppositori dell’attuale maggioranza, e rappresenta il prototipo di quanto di più inviso possa esistere per una certa sinistra romana? Il paradosso è che gli stessi renziani non possono tollerare che Calenda prenda il sopravvento in quella indefinita e frammentata area che dovrebbe sorgere (ma sorgerà mai?) a destra del Pd.

Il rimpasto dovrebbe però anche contemplare una più adeguata rappresentanza delle forze reali che sostengono la maggioranza. Dopo il successo di De Luca ed Emiliano non si può certo sottovalutare il peso di queste due personalità meridionali. Ma anche la Toscana dovrebbe contare un po’ di più della delegazione veneta (che conta ben 6 rappresentanti tra ministri e sottosegretari). Vi è anche bisogno di riequilibrare il peso dei governatori e non sarebbe male rafforzare ad esempio nell’esecutivo il ruolo di città e aree metropolitane (da De Caro ad Appendino, allo stesso Sala). Insomma ora il Pd deve davvero prendere il ruolo di comando che gli compete. Nell’interesse del futuro della maggioranza e dello stesso Conte. Ma soprattutto nell’interesse del Paese.