Restare fedeli a se stessi eppure trovare nuove forme espressive. E’ quanto di più difficile un artista o un gruppo possano fare. Per i Cowboy Junkies, quasi 40 anni dopo il loro esordio, tutto cambia e tutto resta uguale. Ma soprattutto il gruppo canadese ha saputo inventare un suono proprio, originale, che non ha e non potrà ma avere imitatori: tra la voce sommessa e ansimante di Margo e il lavoro di chitarra radicale, teso e psichedelico del fratello Michael, i Cowboy Junkies si sono ritagliati una strada secondaria (nel senso di non appartenente al mainstream) sonora distintiva nel panorama oscuro del cosiddetto scenario “Americana”.
La chitarra di Michael Timmins resta fedele al quel suono visionario e onirico che ha avuto sin da quel capolavoro assoluto che fu Trinity Sessions, ma si espande ancora di più, raggiungendo gli strali cosmici di Neil Young e Jimi Hendrix. L’assolo tortuoso e allucinogeno che apre Flood crea uno strato di disperazione mentre l’eco di Hendrix fluttua in una canzone che crea tensione rigidamente sotto controllo, come allungare un elastico appena prima che si spezzi.
Altrove come solo sono capaci disegnano inquietanti acquerelli acustici, reminiscenze di canti gospel provenienti da fantasmi dell’era della Depressione, nella tenebrosa Hell is Real, sorta di Carter Family sotto acido.
Il disco è nato dopo la perdita del padre dei fratelli Timmins, ritratto nella canzone d’apertura (What I Lost potrebbe essere stata composta dal loro grande conterraneo, Leonard Cohen) e in un magnifico video, scomparso dopo aver sofferto di demenza per lungo tempo. Tutto il disco riflette il senso di dislocamento, di perdita del proprio io, con l’ombra della morte che si allunga sul protagonista.
Ma la band canadese ha tante storie da raccontare con una freschezza compositiva che stupisce dopo tanti anni di carriera, ad esempio la bizzarra Mike Tyson (Here it comes), pauroso country psichedelico dove chitarra elettrica e mandolino si intrecciano.
A questo punto della loro carriera, non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso e di meno dai Cowboy Junkies, confermando la loro aurea di cantori del dolore, del dubbio, della solitudine. E’ una “bellezza feroce” la loro; non è per tutti, ma per chi la sa apprezzare è una forma di consolazione come solo la migliore musica sa donare. C’è spazio, comunque, per un delicato tocco di speranza nella conclusiva acustica Blue Skies: “Possiamo passare tutte le nostre notti alla ricerca di un cielo azzurro ma poi, proprio lì, ci arriveremo”.
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