La ricorrenza del ventennale della scomparsa di Craxi registra un imprevisto interesse tra film di successo, documentari e dibattiti televisivi, interventi giornalistici e pubblicazione di libri con affollate presentazioni. Eventi che coinvolgono un pubblico non di “reduci” e che offrono diverse chiavi di lettura, ma che hanno un comun denominatore: il rigetto della narrazione “giustizialista” dominante dagli anni novanta.
A contribuire a questa esigenza di rilettura sembrano essere due fattori.
Il primo – sullo sfondo – è la coincidenza con il trentennale del crollo del Muro di Berlino. La fine della Guerra fredda fu interpretata come l’avvento di un’era – “la fine della storia” – in cui con la globalizzazione la politica sarebbe stata inutile e dannosa mentre il potere economico libero da vincoli – senza più destra e sinistra, ma con “pilota automatico” – avrebbe assicurato sviluppo economico e pace mondiale.
Abbiamo invece un mondo in fiamme e paesi europei messi in secondo piano con diseguaglianze crescenti. In Europa e nel Mediterraneo siamo ben lungi dall’Italia che con Craxi imponeva alla Thatcher il via libera all’integrazione monetaria o che in piena guerra fredda schierava due battaglioni di carabinieri contro i “Delta force” e convinceva i paesi arabi – “moderati” e non – a chiudere tutti i porti del Mediterraneo ai sequestratori dell’Achille Lauro costringendoli a trattare la resa. Era l’Italia in cui nel referendum popolare vinceva una legge che non regalava bonus, ma prevedeva sacrifici e sul piano della crescita economica la Gran Bretagna era superata.
Il secondo fattore è la parabola del “giustizialismo”, che oggi, giunto al governo del paese, attacca lo Stato di diritto e l’economia di mercato. A rimettere in discussione le narrazioni di “Mani Pulite” è anche il vedere oggi i sopravvissuti del “pool”, da Di Pietro a Davigo, sostenere gente come Beppe Grillo e il ministro della Giustizia Bonafede. La lettura degli anni 80, degli “anni di Craxi”, secondo i luoghi comuni di quel che è stato definito “dipietrismo storiografico” – l’Italia “Grande malato” che negli anni 80 ruzzola nel fango verso la perdizione – non è più convincente.
C’è desiderio di rilettura e di capire meglio che cosa sia veramente successo. La versione di Mani Pulite appare ormai “datata”: i magistrati non sembrano più infallibili, né i comunisti immacolati. Achille Occhetto prendeva finanziamenti da aziende di petrolieri quando era segretario regionale in Sicilia ed Enrico Berlinguer aveva un fondo nero che era raddoppiato durante i governi di solidarietà nazionale giungendo a 8 miliardi e mezzo.
I finanziamenti illegali e segreti erano pratica consolidata. Archivi, documenti e studi mostrano come “Repubblica dei partiti”, Guerra fredda, fondi neri siano stati un tutt’uno. Come disse nel gennaio 1970, quando si cominciava a ipotizzare il finanziamento pubblico dei partiti, il segretario amministrativo del Pci, Armando Cossutta: “Circa i cosiddetti finanziamenti occulti, al di là di ogni moralismo, io sono dell’opinione che, in toto, essi siano ineliminabili”.
I soldi non servivano solo al mantenimento del proprio partito. I comunisti finanziavano le sinistre del Psi e Craxi finanziava partiti e giornali alla sinistra del Pci. Il Pci finanziava le “marce della pace” per evitare il riarmo Nato contro i missili Urss e Craxi è stato il leader più impegnato negli aiuti esteri illegali dal Cile alla Palestina, dagli antifascisti portoghesi ai polacchi di Solidarnosc come hanno testimoniato personalmente da Mario Soares a Lech Walesa.
Certamente il regime di fondi neri, data l’elasticità e opacità dei controlli, si presta anche agli abusi personali. Si pensi ai fondi neri senza rendicontazione dei servizi segreti che tanta suscettibilità provocarono negli inquilini del Quirinale nel 1990-1993.
Ma il “giustizialismo” ha teso a demonizzare e santificare in modo non veritiero. Dietro l’obiettivo di smascherare, ha coperto e salvato con omissioni e falsificazioni.
In Craxi vi sono certo stati errori come quello, dopo il 1987, di tendere a rimandare soluzioni in attesa del suo ritorno a Palazzo Chigi previsto dopo le elezioni del 1992. Ma è sbagliato attribuirgli l’etichetta di “conservatore” per non aver sostenuto il referendum elettorale del 1991. Il movimento di Segni era infatti una risposta di destra nello scenario post ’89. Si richiamava esplicitamente alle tesi della destra francese e sventolava come proprio obiettivo l’avvento di una nuova formazione politica per una “rivoluzione liberale”.
La scelta del Pci di appoggiarlo per un’ammucchiata anti-Craxi ha accreditato e introitato tematiche e personalità – da Segni a Di Pietro – di destra aprendo la strada, per la prima volta nell’Italia repubblicana, a una destra vincente.