Un film di successo che racconta gli ultimi mesi della sua vita, una serie di libri pubblicati quasi a raffica nel giro di quindici giorni, dibattiti e trasmissioni televisive che si susseguono con insistenza. Dopo anni di silenzio assordante e imbarazzato, ritorna di colpo l’immagine umana e politica di Bettino Craxi, proprio nel ventesimo anniversario della sua morte, avvenuta in esilio a Hammamet in Tunisia il 19 gennaio del 2000.
In esilio, ripetiamo, perché la formula giudiziaria del latitante applicata a Craxi è quasi un aspetto grottesco che vorrebbe spiegare una tragedia. Ribadirlo è solo onorare una verità che, in realtà, conoscevano tutti. Non ci voleva molto per andarlo ad arrestare, perché non si nascondeva in una stradina della banlieue parigina (un “classico” degli ex terroristi italiani) e lo andavano a visitare regolarmente politici italiani e stranieri, giornalisti e amici. Strana condizione per un latitante.
Infine perché, in un modo paradossale e già in odore di scuse, non si è mai visto offrire da parte di un governo, quello italiano dell’epoca, un funerale di Stato, così come fu proposto il 19 gennaio 2000.
Il ricordo della vicenda di Craxi è talmente presente oggi, anche se ormai lontano nel tempo (la fine del secolo scorso), che da un lato stupisce e dall’altro fa comprendere che la storia di “Mani pulite”, lo scempio del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael di Roma, i dibattiti infuocati in Parlamento e i discorsi di Craxi alla Camera sul finanziamento pubblico e su quello illecito ai partiti, sono rimasti impressi e pongono interrogativi agli italiani che non hanno ancora una risposta ben documentata.
Quando poi si arriva alla motivazione di quella condanna “perché non poteva non sapere” e si ragiona su quel contesto politico paragonandolo con quello attuale, si comprende benissimo che gli interrogativi e i dubbi si moltiplicano.
Siamo al ventennale della morte del leader socialista, ma già nel 2010 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, scriveva alla famiglia Craxi una lettera in cui tra l’altro specificava: “Senza mettere in questione l’esito dei procedimenti che lo riguardarono, è un fatto che il peso delle responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con una durezza senza eguali sulla sua persona. Né si può peraltro dimenticare che la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo – nell’esaminare il ricorso contro una delle sentenze definitive di condanna dell’on. Craxi – ritenne con decisione nel 2002, che, pur nel rispetto delle norme italiane allora vigenti, fosse stato violato il ‘diritto a un processo equo’ per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea”.
Se Napolitano scriveva quella lettera dal Quirinale, l’ex procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, l’inventore del pool di “Mani pulite”, guardando la situazione politica italiana, ammetteva: “Chiedo scusa per il disastro seguito a ‘Mani pulite’. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale”.
Di fatto, queste prese di posizione riflettevano il clima che si respirava da tempo nella cosiddetta e immaginifica seconda repubblica, quella che, di fatto e di diritto, non è mai nata.
L’operazione scattata nel 1992 (che qualche libro, forse mai tradotto in italiano, aveva titolato The Italian Guillottine) e condotta dalla magistratura di Milano aveva dato (inconsapevolmente, accipicchia, s’intende!) una mano al “nuovismo” politico, all’“Ulivismo” nascente partorito dalla testa di Beniamino Andreatta, con il soccorso dei profughi politici del socialismo reale dopo la caduta del Muro di Berlino. Ecco, quell’operazione di potere stava clamorosamente fallendo.
Ci si trovava ormai di fronte a un risultato che creava prevalentemente confusione politica, una deindustrializzazione inquietante, una decrescita tutt’altro che felice e scelte economiche neo-liberiste che portarono, nel contesto mondiale globalizzato, al disastro e alla crisi del 2008.
L’Ulivo era già morto nel 2005, l’alternarsi di governi di centrodestra e centrosinistra, entrambi ossequiosi verso il pensiero unico neo-liberista, non risolvevano nulla. L’Italia era inserita, con danni notevoli, in una globalizzazione scandita al ritmo del casinò finanziario e in un’Europa che, dal sogno e dal nobile impegno degli ideatori, veniva ridotta a un mercato unico, con fenomeni di concorrenza sleale al proprio interno e nessuna costituzione. Il paragone tra la vita reale degli italiani prima dell’ondata moralizzatrice del 1992, e quella che arrivò dopo l’ondata di privatizzazioni senza liberalizzazioni, decisa dagli ulivisti e dai post-comunisti in accordo con le banche d’affari angloamericane, diventava impietoso.
Craxi, nell’esilio di Hammamet, vedeva e scriveva queste cose, sembrando un profeta di sventura, ma in realtà anticipando la descrizione del declino del Paese che amava. Intanto spiegava il contesto in cui era stato brutalmente emarginato dalla politica italiana.
Quando divenne segretario del Psi nel 1976 ereditava il peso di un partito che da alcuni era addirittura considerato inutile, nello schema della “democrazia consociativa” italiana, che aveva Dc e Pci incontrastati protagonisti. Il primo atto di Craxi fu quello di far rinascere il riformismo, che in Italia era in minoranza da tempo immemorabile, pur avendo protagonisti storici di primo piano come Turati e Anna Kuliscioff. Il secondo passo fu quello di collegarsi ancora di più a livello internazionale al riformismo della socialdemocrazia tedesca, al riformismo francese, al laburismo inglese, al rinato socialismo di Gonzalez in Spagna e di Soares in Portogallo. In questo fu aiutato in modo incredibile da Willy Brandt.
Fu Brandt che invitò Craxi, vincendo resistenze nella stessa Spd, a tenere il discorso inaugurale del XXX anniversario della ricostruzione della casa natale di Marx a Treviri, il 4 maggio 1977. La casa che era stata distrutta dai nazisti.
Poco dopo Craxi cambiò il simbolo del partito, con il garofano storico dei riformisti e si incamminò su un revisionismo socialdemocratico, allargandolo al socialismo liberale del fratelli Rosselli. Di fatto Craxi, sia per statura nazionale che internazionale, diventava il punto di riferimento in Italia di una alternativa di sinistra moderna, che metteva paura all’immobilismo della Dc e smascherava le contraddizioni del Pci (diviso al suo interno), proprio mentre l’Unione Sovietica andava verso un’implosione storica.
Craxi, nato nel 1934, è stato sempre un uomo di sinistra. Nel 1948, quando aveva quattordici anni, appiccicava sui muri i manifesti del Fronte popolare. Poi nel 1956, a 22 anni, fu colpito dalla tragedia ungherese, con i carri sovietici che uccisero migliaia di insorti e il leader del Pci del tempo, Palmiro Togliatti, brindava alla grande Urss fondata da Lenin. Quel 1956 fu una data cruciale anche per Craxi nel giudizio sul marxismo-leninismo, mentre ancora nel 1981 Enrico Berlinguer, pur cercando di trovare strade autonome dall’Urss, ribadiva “l’attualità del leninismo”. Quando Jiri Pelikan, uno dei protagonisti della “primavera di Praga”, fugge in Italia dopo l’invasione dei sovietici cerca un appoggio dal Pci, che ha criticato con precauzione l’invasione dell’Urss in Cecoslovacchia. Ma al di là della critica, il Pci non va oltre e Pelikan, a Botteghe Oscure, viene quasi snobbato. Sarà Craxi che lo farà diventare invece eurodeputato nel gruppo socialista.
Lech Walesa, il leader della rivolta polacca, non dimenticherà mai gli aiuti di Craxi e lo stesso Giovanni Paolo II manderà a Craxi dei biglietti di solidarietà al leader in esilio a Hammamet, anche in ricordo dell’amicizia con la sua Polonia liberata.
È un autentico scontro di potere quello che avviene in Italia, dopo la caduta del Muro di Berlino, ed è la mini-proiezione della scontro a livello mondiale e in particolare in Europa, dove l’economia di mercato di carattere sociale, che univa tedeschi e francesi, diventa solo economia di mercato, non più sociale.
I post-comunisti, senza nemmeno parlarne, approvano le privatizzazioni e passano dalle nazionalizzazioni al mercato tout court. A menare la danza dell’economia di mercato, dimenticandosi pure di Keynes, sono Andreatta e soci, con riunioni particolari e una addirittura “esclusiva” sul panfilo Britannia, come ha ricordato il professor Fulvio Coltorti, che è stato capo Ufficio Studi di Mediobanca.
Lì, in disparte dagli altri partecipanti alla crociera, si decide, in accordo con le banche angloamericane, lo smantellamento della parte pubblica dell’economia italiana.
Un autentico colpo di mano che, nei prossimi anni, potrebbe essere chiarito ancora di più e che ha risvolti persino inquietanti.
Parallelamente a questo mutamento epocale, ecco che la magistratura italiana scopre la corruzione e il problema del finanziamento illecito ai partiti. Una “moda” da cancellare, una pratica da modificare che era in atto dal 1946, e di cui nessuno aveva mai parlato. C’era anche una sorta di diluvio di rubli-dollari che arrivavano dall’Urss al Pci su cui si sorvolava bellamente.
In ben tre discorsi alla Camera, Craxi invitò tutti, ammettendo anche le colpe sue e del suo partito, a quella che poi Francesco Cossiga avrebbe definito la “grande confessione”.
Il risultato fu veramente singolare. I nuovi “principi del diritto”, da Di Pietro a Davigo, spiegarono che le dichiarazioni di Craxi erano un’ammissione di colpa, quasi un aggravante e tutto il resto era stato amnistiato. Morale: cinque partiti democratici sparirono dalla geografia politica italiana, si affermò l’ulivismo e il riciclaggio dei partiti di estrema destra ed estrema sinistra.
Il risultato, dopo questi anni, è sotto gli occhi di tutti. Con una classe politica e una classe dirigente che sembra uscita, in modo scassato e goffo, da una metafora mal confezionata della grande commedia di Carlo Goldoni: “Le baruffe chiozzotte”.
Ci vorrà ancora tempo, ma alla fine tutta la verità verrà a galla e la stagione del giustizialismo populista sarà solo un brutto ricordo.