Il Pil del secondo trimestre in Italia è rimasto invariato rispetto ai tre mesi precedenti e all’analogo periodo del 2018. Pari a zero è anche la variazione acquisita del Pil per il 2019. L’Istat, insieme a questa stima preliminare, ieri ha fatto sapere che a giugno la disoccupazione è scesa al 9,7%, livello che non si vedeva dal gennaio 2012. I senza lavoro tra i giovani sono arrivati al 28,1%: si tratta del dato più basso dall’aprile del 2011. Le cose vanno leggermente meglio in Europa: la crescita del Pil nel secondo trimestre 2019 è stata, sia nell’Ue che nell’Eurozona, dello 0,2% rispetto al primo trimestre, mentre la disoccupazione è scesa al 7,5% nella zona euro ed è rimasta al 6,3% nell’Unione. I dati delineano, per Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, «un quadro problematico sia sul piano interno che su quello estero. Secondo me, il dato centrale è che complessivamente, in Italia, siamo in una situazione di crescita zero. Le considerazioni che si possono fare in merito sono almeno due».
Quali sono?
La prima è che il modello di crescita sembra rimasto invariato, nel senso che l’Europa rallenta un po’, la Germania un po’ più della media, ma noi siamo sempre in fondo ai tassi di crescita. C’è quindi per l’Italia un problema di “modello” di crescita, che richiede a questo punto un’attenzione prioritaria.
E la seconda considerazione?
In questa situazione si riverberano sull’Europa, e probabilmente ancora di più sull’Italia, gli effetti di un quadro internazionale che è particolarmente fragile, anche se per il momento può contare su un bastione molto robusto rappresentato dalle banche centrali.
Che conclusioni si possono trarre da queste considerazioni?
Il quadro internazionale in cui abbiamo lo scontro Usa-Cina, oltre che la Brexit, vede il nostro Paese di fronte a due principali problemi. Il primo è individuare un modello crescita che funzioni davvero. Occorre cioè una capacità da parte del sistema economico di generare non solo occupazione, ma anche reddito e potere d’acquisto. Il secondo è fornire una rete di protezione per i soggetti più colpiti, penso in particolare ai disoccupati e alle famiglie con reddito basso. Dobbiamo in sostanza cercare di evitare di essere travolti da fattori esogeni, ma anche cercare un modo diverso per crescere.
Professore, questi dati vengono anche sottoposti ad analisi politiche. Se è vero che la crescita è zero, è altrettanto vero che il mercato del lavoro manda segnali incoraggianti. Significa che il Governo non ha preso misure del tutto sbagliate?
Credo che bisognerebbe evitare letture di questi dati che siano distorte dalle proprie intenzioni politiche. Per esempio, è vero che scende la disoccupazione giovanile, ma non vorrei che si dimenticasse che nel nostro Paese ci sono sempre meno giovani. Dobbiamo capire quali segnali ci mandano questi dati, che in tempi normali dovremmo accogliere con soddisfazione. Ma come si può accogliere con soddisfazione un segnale che dice che l’occupazione aumenta, quando un altro dice che la produzione diminuisce? Di solito un aumento dell’occupazione lo si nota dopo qualche mese di crescita del Pil. Oggi mi sembra che il “timing” occupazione/disoccupazione non sia più quello di prima.
In queste settimane si sta parlando molto degli interventi da inserire nella Legge di bilancio. Sul piatto ci sono salario minimo, taglio del cuneo fiscale, riduzione delle tasse: secondo lei, a fronte di della situazione descritta dai dati dell’Istat, quale provvedimento sarebbe prioritario?
Il salario minimo è probabilmente una misura che va nella direzione di far sì che chi ha un lavoro non venga sottopagato. Quindi, tra i provvedimenti indicati, darei priorità a questo. Tuttavia mi piacerebbe che si puntasse anche sull’istruzione. Non dimentichiamo che quella parte di Paese che continua a crescere, con competenze e qualità del capitale umano che il nostro Paese esprime, arranca. Alcuni paesi che fino a ieri sono cresciuti in maniera decisa hanno fatto grandi investimenti nell’istruzione, a partire dalla Germania.
Ma ora l’economia tedesca fa fatica…
È vero che la Germania è entrata in una fase sfortunata. Le incertezze internazionali riguardano Paesi come Stati Uniti, Cina e Regno Unito che sono i principali mercati di sbocco per l’export tedesco, quindi indirettamente anche dell’Italia. Anche noi non siamo stati fortunati, perché abbiamo fatto politiche non proprio mirate sulla crescita di medio e lungo periodo, e in questo momento ci dobbiamo tutelare rispetto alla “ruota della fortuna” che gira. La Germania è già pronta, perché ha un sistema di indennità di disoccupazione che protegge almeno nel breve periodo. Purtroppo il Governo di Berlino è ostinatamente contrario a un rafforzamento delle politiche fiscali non tanto europee, ma anche interne. Questo rappresenta un problema, perché per quanto Draghi possa agire anche fino all’ultimo istante del suo mandato, la gamba monetaria da sola non basta per generare crescita.
Se la Germania su questo punto è ferma, l’Europa invece, con la nuova Commissione, potrà fare qualcosa?
Penso di sì, perché non si deve trascurare il peso dei piccoli paesi che gravitano intorno alla Germania, come la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Romania, la Bulgaria, ecc. L’Ue deve stare attenta, perché se la locomotiva tedesca si inceppa ne risentono tanti paesi. Ci sono quindi le condizioni perché la Germania, obtorto collo, possa prendere in considerazione delle politiche fiscali, almeno al proprio interno, in tempi rapidi. Andrà poi ripensato il modello di crescita, in modo che sia orientato non sul mercato asiatico, come ha fatto finora la Germania, ma su quello europeo. Occorre un mutamento di prospettive di politica economica, certamente in Italia, ma anche in Europa. Il cambiamento di Parlamento e Commissione Ue rappresenta un momento favorevole per parlarne. C’è un solo punto, delicato e importante per noi.
Quale?
Il quadro internazionale turbolento potrebbe accompagnarci fino alle elezioni americane. Il tempo in questo momento non gioca a nostro favore. Quindi dovremo poter tutelare, almeno da qui all’inizio dell’anno prossimo, tutta quella fascia di popolazione che è o disoccupata o guadagna così poco da non riuscire, tanto per intenderci, a pagare l’affitto.
(Lorenzo Torrisi)