Difficile immaginare una scenografia più accattivante. Parigi, la terra della Bastiglia, custode del principio di Egalité, attraversata dai cortei degli studenti che ieri hanno bloccato l’ingresso della Sorbona. Roghi intanto sono segnalati a Lyon mentre blocchi stradali si registrano a Rennes e nei pressi dell’aeroporto Charles De Gaulle. La protesta per la riforma delle pensioni, insomma, non si placa. Anzi, tende a essere la punta dell’iceberg di una contestazione ai limiti di una società sempre meno inclusiva.
In questa cornice assume un sapore incendiario la notizia che la Francia annovera quest’anno sia l’uomo che la donna più ricca del pineta. C’est è dire Bernard Arnault, noto come “il lupo in cachemire”, accreditato di un patrimonio di 211 miliardi di euro (tanti quanto vale l’ammiraglia Lvmh, una holding da settanta marchi del lusso e anche più), e madame Françoise Bettencourt Meyers, ereditiera cui fa capo l’impero de L’Oréal difeso in tribunale contro la madre vittima di sedicenti amici. A lei fa capo una fortuna di 80 miliardi di euro. Assieme fanno quasi 300 miliardi, ben di più dell’ammontare, tra prestiti e aiuti a fondo perduto, del Pnrr, speranza e cruccio della politica italiana.
Dietro la fortuna delle griffe c’è la stagione d’oro dell’industria del lusso, capace di attraversare senza troppi danni pandemie e guerre, grazie al potere d’acquisto accumulato dai ricchi a ogni latitudine. Che dire? L’eco della Bastiglia si perde nella notte dei secoli. Ma sembra quasi tornar d’attualità la battuta di Maria Antonietta: “Il popolo ha fame? Dategli una brioche”. Oppure una borsa Louis Vuitton, se preferite. Al di là della battuta resta il fatto che, non solo in Francia o nel resto d’Europa, l’ascensore sociale non funziona più. Intanto s’allarga la forbice tra ricchi e poveri. Alla supremazia del capitale sul lavoro che si è imposta in Occidente a partire dagli anni Ottanta si è aggiunto un nuovo fenomeno che ha un nome preciso: la greedflation, cioè l’inflazione da avidità, tendenza legata alla decisione delle imprese di approfittare della confusione di questa fase instabile per aumentare in modo ingiustificato il prezzo dei loro prodotti.
Per carità, non c’è nulla di anormale o di immorale nell’approfittare degli squilibri tra domanda e offerta per alzare i prezzi quando la domanda è forte. Ma a immaginare che la quota dei profitti sia così elevata da generare inflazione assai più dei salari sono oggi protagonisti al di sopra di ogni sospetto. Come Isabel Schnabel, membro tedesco del board della Bce. “I profitti – ha detto – hanno giocato un ruolo importante nella crescita dell’inflazione interna”. In particolare, si legge su un blog della Banca centrale europea che fra il 1999 e il 2019 i profitti hanno generato un terzo dell’inflazione complessiva, ma nel 2022 il dato è cresciuto al punto che gli utili aziendali sono stati responsabili di ben due terzi dell’aumento dei prezzi. E questo mentre, un po’ ovunque, crolla il potere di acquisto delle famiglie: -3,7% nell’ultimo trimestre 2022 in Italia a fronte dell’inflazione ancora forte (+7,7% a marzo) che si mangia porzioni importanti dei redditi. Non a caso il disagio dei francesi non è un episodio isolato, ma la protesta, già esplosa nel Regno Unito, ha ormai incendiato la Germania, ove i lavoratori dei trasporti, dalle ferrovie agli aeroporti, chiedono aumenti a doppia cifra. E l’Italia? Per ora solo una pioggia di dichiarazioni generiche sugli “extraprofitti”.
In realtà non è chiara la natura del fenomeno. Per qualcuno è solo l’ultima conseguenza della pandemia che ha gonfiato il portafoglio delle famiglie grazie ai sussidi. Se così fosse, l’anomalia sarebbe destinata a rientrare a breve assieme ai frutti dell’alta inflazione. Ma che fare altrimenti di fronte alla resistenza ad abbassare i prezzi di merci comunque insostituibili o quasi? Il rialzo dei tassi rischia di essere inutile o dannoso nel caso di mercati sempre meno concorrenziali e più concentrati, ove le imprese possano manovrare i prezzi, perché i consumatori non hanno altro posto in cui andare. Quasi tutti i dati sui profitti confermano che siamo di fronte a uno squilibrio a favore dei venditori reso possibile dall’assenza di concorrenza in un quadro di oligopolio. L’aumento dei tassi, in questo quadro, serve a poco. Anzi, rischia di creare ulteriori squilibri.
Non è difficile immaginare che la battaglia per alzare il potere d’acquisto dei salari sia comunque destinata a inasprirsi. Anche perché, con l’eccezione del lusso, l’economia europea non potrà fare grande affidamento sulla crescita delle esportazioni, già insidiate dal protezionismo Usa ma anche dalla rinnovata aggressività delle merci di Pechino (basti pensare all’auto elettrica). E non solo. Gli effetti della guerra e del deterioramento del clima rischiano di complicare assai il quadro. Vi ricordate l’effetto in Francia dell’aumento dei carburanti per una tassa per interventi contro l’inquinamento? Fu la miccia che fece esplodere la protesta dei contadini francesi. Oggi qualcosa del genere si ripete in Olanda a fronte degli interventi su concimi e additivi decisi dal Governo che rischiano di colpire i produttori. O in Polonia, dove l’afflusso del grano ucraino sta facendo precipitare i prezzi.
>Anche per questo cresce la necessità di difendere la tenuta dei consumi interni, mission impossible se, come è accaduto nel 2022 in Italia, l’inflazione è salita di nove volte rispetto al misero incremento delle buste paga (+1,1%). Ma le cose vanno ancora peggio: l’incremento dei salari è dovuto infatti quasi per intero agli aumenti del settore pubblico mentre si allunga la fila infinita dei contratti scaduti. In base agli ultimi dati estratti dall’archivio unico Inps-Cnel, relativi alla fine di marzo, ci sono ancora 574 contratti nazionali di lavoro scaduti su 963 depositati, quasi il 60%. Significa che 7,9 milioni di lavoratori del settore privato su 13,7 milioni attendono, alcuni da anni, il rinnovo dei contratti e assistono impotenti al terzo anno consecutivo di erosione del potere d’acquisto delle loro buste paga in un’epoca di super inflazione a due cifre.
Al di là dell’effetto congiunturale si moltiplicano gli effetti perversi sulla natura stessa del mercato del lavoro: dall’esplosione del “nero” (che spesso si accompagna con il finto part-time), all’assenza di offerta di lavoro che colpisce numerosi settori con retribuzioni troppo modeste. In prospettiva, tutto ciò non può portare che a un impoverimento generale: meno scuola, meno servizi avanzati, meno aziende in grado di offrire posizioni per i “cervelli”.
L’emergenza salari, dunque, riguarda il futuro del Paese nel suo complesso. Il distacco dell’Italia negli stipendi accumulato nell’ultimo quarto di secolo è anche la conseguenza di un sistema produttivo basato sulle piccole imprese che stentano a dotarsi delle strutture necessarie per far fronte a ricerca e sviluppo, marketing o altri aspetti della crescita. È su questi terreni, mica sulla ricetta della autentica pizza certificata dall’Unesco, che si gioca il futuro del Paese.
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