L’ONU ha approvato il trattato internazionale sulla criminalità informatica, aprendo fin da subito un ampio dibattito. La contrarietà è stata manifestata in particolare dalle aziende tecnologiche nonché dalle associazioni a tutela dei diritti umani. Nonostante infatti il trattato in questione sia stato accolto con entusiasmo sembra anche mostrare alcune criticità.



Come riporta il Corriere il trattato è frutto di lunghi negoziati protrattisi nel tempo, le cui origini risalgono a ben 7 anni fa, se non prima. La discussione può dirsi iniziata infatti già nei primi anni 2000. Ora mancano solo l’approvazione dell’Assemblea Generale e la ratifica dei Paesi membri, ma gli ‘step’ più importanti sembrano ormai essere stati compiuti. Nelle prossime settimane partirà la votazione tra i 193 stati membri dell’Assemblea generale. Se verrà accettato dalla maggioranza, il trattato passerà al processo di ratifica, in cui i governi dei singoli paesi dovranno firmare. La bozza consta di 41 pagine e trova la sua ratio nel voler combattere fenomeni, ormai ampiamente diffusi, di cybercrime e di qualunque altra minaccia informatica.



TRATTATO ONU SULLA CRIMINALITÀ INFORMATICA: COSA NON CONVINCE?

Dietro la facciata di una tutela giuridica contro i reati informatici il trattato ONU sulla criminalità informatica sembra nascondere aspetti controversi. Ciò che desta maggiore preoccupazione è il rispetto dei diritti umani, visti gli ampi poteri riconosciuti per la sorveglianza e la raccolta di dati. Il timore è che questo strumento normativo possa essere utilizzato in maniera impropria, soprattutto nei Paesi con una “debole” supervisione giudiziaria.

L’articolo 36 infatti tratta il trasferimento dei dati personali tra i vari Stati, i quali devono tutelare i dati secondo le leggi e gli accordi nazionali e internazionali. Ma non tutti i Paesi posseggono leggi robuste per la tutela dei dati, come ad esempio il nostro Gdpr, o l’europeo Data Act in vigore dal 2025. Il timore è quindi che in alcune aree geografiche le informazioni personali possano essere utilizzati in modo improprio. E poi avanzano dubbi anche sullo stesso concetto di ‘criminalità informatica’, che, a seconda della diversa interpretazione, potrebbe limitare il campo d’azione dell’hackeraggio etico, privo di intenzioni criminali.



LA DENUNCIA DEGLI ATTIVISTI DEI DIRITTI UMANI E DELLE AZIENDE TECNOLOGICHE

Varie associazioni sui diritti umani, come ‘Human Rights Watch’ o ‘Article 19’, sono praticamente certe che in molti paesi saranno violati i diritti umani con questo trattato Onu. Con la scusa di aver commesso reati informatici, giornalisti, dissidenti o omosessuali, sono stati perseguiti, condannati alla prigione o, peggio ancora, a morte, ‘colpevoli’ di aver espresso online il proprio pensiero. Il trattato sulla criminalità informatica quindi, secondo la convinzione di questi attivisti, faciliterebbe episodi di questo tipo, intensificando la repressione transnazionale. In linea generale viene lamentato quindi il pericolo dell’esercizio della libertà d’espressione.

Quanto alle aziende tecnologiche (tra cui si vantano nomi del calibro di Microsoft, Meta, Tim e Dell) tale accordo potrebbe costringere i provider a condividere dati tra vari Paesi, andando in netto contrasto con le leggi locali.