Nella sua ultima conferenza stampa il presidente americano Joseph Biden, spiegando le ragioni del ritiro dall’Afghanistan, ha detto che nel paese gli Usa avevano speso in 20 anni tra i mille e i 2mila miliardi di dollari, più del Pil dell’Italia, più della intera manovra di stimolo dell’Unione Europea dopo il Covid.



Ma lo spreco di risorse non era la questione centrale, né alcuno ha recriminato o ha pressato per capire come e perché questa montagna di denaro sia stata sciupata. La questione centrale era il caos del ritiro americano, il futuro dei paesi, sia l’Afghanistan che l’America, la sorte dei poveri afghani nelle mani dei feroci talebani.



Che una cifra così importante sia diventata un dettaglio nelle decisioni politiche e nel dibattito pubblico in Occidente indica con chiarezza un cambio radicale del paradigma di interpretazione della realtà nel mondo sviluppato.

Fino a poco tempo fa, e a cominciare dal crollo dell’impero sovietico nel 1989, la questione centrale del dibattito pubblico era la gestione dell’economia. L’aumento della ricchezza, la solidità dei conti, i sempre maggiori ritorni in Borsa.

In questo paradigma la Cina era fondamentale. Essa era una grande base di produzione a basso costo, un enorme potenziale mercato di sviluppo e quindi un pezzo importantissimo della catena di valore globale e del paradigma economico-globalista.



Ma questo partiva da una premessa: la Cina a un certo punto, quando sarebbe diventata abbastanza grande economicamente, doveva integrarsi completamente nella catena di valore globale. Cioè avrebbe dovuto avere una moneta pienamente convertibile e un mercato interno libero a investimenti stranieri come quello americano o europeo.

Ciò non è avvenuto. Quindi è diventato insostenibile mantenere un mercato globale libero guidato solo da regole economiche, mentre un grande attore di questo mercato non rispettava le regole degli altri e giocava con principi diverse che sovvertivano i metodi generali.

Allora il paradigma è cambiato. L’economia, i conti economici non sono più importanti. Conta la politica, la strategia, quello che rimette in ordine le regole di base che poi fanno funzionare il mercato. Ma se le regole non sono fissate, il mercato è iniquo ed è solo scusa per i soprusi del più prepotente di turno.

Se il paradigma da economico diventa politico, il contributo della Cina non è più importante, anzi può essere fonte di turbativa, inquinante. Questo cambia tutto il modo di vedere e anche la politica all’interno dei paesi occidentali e dell’America.

Se l’obiettivo non è un mercato ordinato ma battere “l’avversario sovvertitore del mercato globale” allora i conti possono anche non tornare. I soldi servono a un fine superiore, quello della sconfitta del nemico appunto, non più a investimenti che devono essere produttivi e ritornare maggiorati.

Questo pone nuovi obiettivi e punti di riferimento in particolare agli europei, che sono stati imbrigliati per 20 anni nelle catene dei ritorni di bilancio.

Il problema non è banale perché la questione perentoria dei “conti a posto” è stata sollevata dall’America stessa agli inizi degli anni 90, e gli europei l’hanno adottata con fermezza pochi anni dopo pensando anche a Washington per sostenere la moneta unica. All’inizio dei 90 la speculazione da Wall Street fece crollare il serpente monetario europeo e il suo sistema di cambi su banda di oscillazione fissa ma senza moneta unica.

Ora l’America fa dietrofront, senza spiegarsi troppo, come se fosse una cosa naturale, quando di naturale non c’è niente nei cambi di paradigma. Naturalmente in Europa questo suscita allarme e perplessità, ed è giusto così.

Ma tali giuste perplessità non possono negare la realtà: le cose sono mutate. Le cose sono andate avanti in un certo modo per 30 anni, ora invece si cambia registro. È drammatico, certo, ma forse meno drammatico di due secoli fa quando ogni cinque-dieci anni in Europa scoppiava una guerra che modificava progressivamente la politica e l’economia del continente. Allora le spese per le forze armate assorbivano la metà del bilancio statale, non il 2-3% attuale. Ora probabilmente si dovrà andare a un aumento rispetto alle percentuali attuali, senza però arrivare ai volumi ottocenteschi.

Questo non è il ritorno all’800, ma non possiamo pensare che l’800 e i millenni di storia che l’hanno preceduto non esistano più e che davvero la storia prima del 1989 sia finita.

Questo pone questioni fondamentali per la Cina. Essa pensava finora che la promessa di benefici e ritorni sarebbe bastata a vincere i capitalisti occidentali interessati ai soldi. Se però il paradigma è il nuovo, allora tutto va sotto una nuova luce.

Resta importante come finanziare questo nuovo sforzo politico strategico. Qui l’America ha un vantaggio immenso. Wall Street è il centro della finanza globale e fa girare la moneta che tutti usano per trattare fra loro, compresa la Cina. La Cina viceversa domina solo il proprio mercato interno e Hong Kong, dopo la repressione delle recenti proteste, funziona sempre meno e sempre peggio. Ciò significa più capacità di generare risorse per gli Usa e meno per la Cina.

Ma l’Europa cosa fa? Sogna il ritorno al mondo che non c’è più della parità di bilancio, o si adatta al nuovo? Inventa una terza via con cui affronta l’America alleandosi alla Cina? Ci sono pericoli in tutte le scelte, ma realisticamente non è neanche possibile concepire che non si adatti o che si allei alla Cina, per mille motivi.

Questo ha ricadute dirette sull’Italia.

L’Italia può fare le cose che fa la Germania quando si parla di Eurobond, dello sforamento del patto di bilancio del 3% eccetera, cioè quando si tratta di cose totalmente europee. Se però nella politica internazionale l’Italia pensa di fare le stesse cose della Germania fa un danno a sé stessa, alla Germania, all’Europa, a Cina e Russia, e non fa un buon servizio agli alleati.

Dal 1945 al 1994 l’Italia era il ponte tra gli Usa e la Germania, solo così l’Italia può avere un ruolo soprattutto oggi che gli inglesi sono fuori dall’Unione Europea. Non ci sono altre strade. O meglio le altre strade possono portare a disastri peggiori dello sforamento del bilancio.

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