L’epocale crisi economica innescata dalla pandemia, e dalle conseguenti limitazioni alle attività sociali e produttive, da un anno sta mortificando l’industria del turismo, ritornato in nemmeno dodici mesi ai livelli di trent’anni fa. In queste tragiche difficoltà, merita forse il primato la paradossale situazione dei gestori, o delle società di gestione di immobili destinati alla ricezione, e cioè alberghi, villaggi, resorts, rimasti vuoti, per i quali però i gestori sono chiamati comunque a versare puntualmente i canoni di locazione alle proprietà. Dunque, il peso della crisi ricade solo su chi già si vede gli incassi evaporati. Ne abbiamo chiesto conferma a un vero esperto, l’avvocato padovano Fabio Pinelli, il titolare di un noto studio di consulenza e assistenza nell’ambito del diritto penale dell’economia e nella prevenzione del rischio penale d’impresa su tutto il territorio nazionale. 



Dunque, avvocato, è così?

Il peso della crisi ricade, inevitabilmente, sui settori produttivi più colpiti dall’emergenza sanitaria. Le industrie alimentari hanno sofferto relativamente, altri settori invece – basti pensare a quelli della ristorazione, del mondo dello sport e della cultura – risultano essere le principali vittime di questa situazione. I dati ci dicono che il settore maggiormente penalizzato è stato quello turistico: il 2020 è stato archiviato con perdite di 200 miliardi di euro e durante i mesi del lockdown (in particolare, dall’11 marzo al 4 maggio 2020) la domanda e le presenze nelle strutture ricettive si sono quasi azzerate. È evidente come a fronte di tali dati obiettivi, che delineano uno scenario oggettivamente drammatico, il pagamento dei canoni di locazione degli immobili delle strutture che svolgono attività ricettiva turistica, costituisce un ulteriore aggravio del costo dell’emergenza sanitaria, per certi versi inaccettabile. A fronte di tale situazione catastrofica, gli interventi del Governo sinora messi in campo non possono ritenersi, a mio giudizio, soddisfacenti. Le misure introdotte – contributi a fondo perduto, crediti di imposta – appaiono dei palliativi. La tecnica normativa del rimborso non costituisce infatti una risposta “strutturale” alle crisi d’impresa (purtroppo in costante aumento), poiché non incide sul cuore del problema, vale a dire il governo della crisi attraverso misure di prevenzione della crisi stessa. Se la politica non interviene con visione e competenza, si corre il rischio, effettivamente, che tutto il peso di tale depressione economica ricada sugli imprenditori, che non dimentichiamo sono il motore dell’economia e gli unici produttori di ricchezza del Paese. Da questo punto di vista una concreta misura strutturale potrebbe essere quella di imporre normativamente alcuni benefici di carattere fiscale nonché proprio la rinegoziazione dei canoni di affitto con riduzioni percentuali prestabilite degli importi.



La legge non prevede per i proprietari degli immobili l’obbligo di garantire il godimento del bene? E se questo godimento è impedito dal lockdown, su chi ricade l’onere?

È certamente vero che il proprietario dell’immobile deve garantire il godimento del bene locato. Il punto però è che il bene non viene goduto per una responsabilità che non è certo del conduttore. Cosicché la scarsità di risorse di cui dispone l’imprenditore può determinare l’impossibilità di provvedere al pagamento del canone di locazione. 

Si può contare sull’imposizione della rinegoziazione del contratto, con conseguenti rimodulazioni al ribasso? Esistono obblighi per contrattare nuovi accordi?



I giudici che si sono occupati di tali questioni hanno espresso un principio di carattere generale: non vi è un automatismo nella riduzione del canone. Ma il punto vero è un altro. Vale a dire applicare a tali vicende il principio di eccessiva sopravvenuta onerosità per i contratti di locazione che riguardano settori gravemente colpiti dalla pandemia. Pretendere lo stesso importo per il canone locatizio originariamente pattuito corrisponde a una condotta contraria al principio della buona fede contrattuale.

Sono previsti dunque correttivi per gli squilibri contrattuali causati dal lockdown? 

Questa appunto è la domanda centrale su cui dobbiamo interrogarci. Non è stata introdotta una norma che imponga l’obbligo per il locatore di acconsentire a una riduzione forzosa del canone di locazione in ragione del drastico calo degli introiti sopportato dalle strutture recettizio-turistiche. Tuttavia, il nostro ordinamento contempla dei concreti correttivi utilizzabili dal locatario di strutture recettivo-turistiche per rinegoziare gli importi del canone. In primo luogo, il principio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, che consente alla parte svantaggiata di risolvere il contratto al verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili. Bisogna poi ricordare che la buona fede contrattuale non è un requisito che vale solo al momento della stipula del contratto, ma “contamina” l’intera esecuzione del contratto stesso; cosicché chi non è disponibile a rinegoziare un contratto palesemente vessatorio nei confronti di un solo contraente per ragioni a lui non addebitabili, ma anzi per accadimenti del tutto imprevedibili al momento della sottoscrizione del contratto, tiene una condotta contraria al principio della buona fede contrattuale. 

Non è previsto nient’altro?

Sì, un profilo di carattere più sistematico. Il nostro ordinamento è permeato da un canone di carattere generale che è quello dell’inesigibilità: non è possibile pretendere che un soggetto adempia una prestazione qualora questa sia divenuta impossibile. In questo caso il comportamento antidoveroso non è rimproverabile e, dunque, non sanzionabile. Si tratta di un principio che spesso i giudici penali applicano nei processi ritenendo, per esempio, non punibile l’imprenditore in caso di omesso pagamento delle imposte o dei debiti previdenziali, qualora l’azienda versi in una situazione incolpevole di crisi di liquidità. Anche la giurisprudenza dunque si è “modellata” su principi di comprensione dell’imprenditore “non puntuale pagatore”, dovendo affrontare il dato ineludibile della crisi d’impresa come crisi di sistema della società tutta e non quindi attribuibile, unicamente, a pochi imprenditori coinvolti. Ora sarebbe davvero paradossale non applicare tali condivisibili principi al contratto di locazione sottoscritto dall’imprenditore turistico, qualora non sia più nelle condizioni economiche di provvedere al pagamento del canone di locazione in ragione del calo delle entrate dovuto alla pandemia, evento straordinario e del tutto imprevedibile.

È vero che gli alberghi non sono mai stati costretti alla chiusura da nessun dpcm (per una serie di motivi), anche se di fatto moltissimi hanno dovuto rinunciare all’attività, vista la mancanza di clienti (turisti stranieri scomparsi, movimenti interregionali pure, ecc.). Se ad esempio si gestisce un albergo in Valle D’Aosta, è assurdo tenerlo aperto vista la chiusura degli impianti e il divieto d’accesso da fuori regione. Ma la mancanza specifica dell’obbligatorietà alla chiusura può complicare la rinegoziazione dei contratti?

Direi di no. I principi che ho appena illustrato presentano portata generale e sono stati già efficacemente applicati dai giudici, operando una riduzione del canone nei casi in cui l’imprenditore sia riuscito a dare la prova dell’incidenza della pandemia (e soprattutto delle conseguenti misure restrittive) sull’attività economica esercitata. 

(Alberto Beggiolini)