Le banche centrali e gli economisti agiscono quasi sempre sulla base dei numeri: il driver principale delle politiche monetarie è, come noto, il controllo dell’inflazione; per questo motivo la banca centrale americana guarda con forte apprensione al mercato del lavoro, che, a inizio anno, ha subito una nuova impennata, insistendo sulla via del rialzo dei tassi, senza particolari preoccupazioni per una possibile frenata dell’economia, che comunque mostra ancora una buona tenuta.
Commentando la situazione a metà marzo, mi sono permesso di osservare come tale atteggiamento suoni assai cinico, dal mio punto di vista, poiché, dietro ai numeri della disoccupazione, chi perde il lavoro sono le persone; ho citato il caso, un po’ umoristico ma per me molto istruttivo, della mia amica barista, che, per ora, grazie a Dio, continua a svolgere egregiamente il suo lavoro.
Nei mesi di marzo e aprile, negli Usa la dinamica occupazionale è in calo, con una variazione di 236mila posti a marzo, dopo 326mila a febbraio e 472mila a gennaio (il tasso di disoccupazione è tornato a 3,5%, in aumento). L’incremento dei sussidi di disoccupazione, dei licenziamenti, unitamente al calo delle posizioni aperte (-15% rispetto all’anno scorso) e delle dimissioni volontarie offrono segnali di rallentamento della domanda di lavoro, importanti agli occhi dei banchieri centrali, benché non ancora sufficienti: le posizioni aperte sono in calo, ma ancora su livelli elevati; inoltre, il mercato del lavoro americano è disomogeneo, diviso tra crescita dei settori ancora lontani dalla situazione ante-pandemia (servizi di accoglienza, ricreativi e settori governativi) e contrazione di altri settori (manifattura e costruzioni); ciò non rallenta le pressioni salariali e, di conseguenza, la spinta dell’inflazione core per effetto dei servizi, influenzati dal costo del lavoro. Il quadro complessivo, pertanto, porterà la Fed a non considerare conclusa la propria azione restrittiva e, per questo, dall’appuntamento del Fomc di questi giorni, su cui tutti gli operatori hanno gli occhi puntati, uscirà probabilmente un nuovo rialzo dei tassi (si stima di 25 bp, fino a 5,25%).
È doveroso, tuttavia, dedicare attenzione a un elemento nuovo, comparso sulla scena, rubricato sotto il nome di “crisi bancaria”. La Silicon Valley Bank (Svb), fallita praticamente in tre giorni, era una banca statunitense rivolta principalmente alle start-up tecnologiche, settore che necessita sempre di abbondati dosi di liquidità da investire. Il patrimonio della banca si è fortemente deprezzato a causa dell’inasprimento della politica monetaria e, in assenza di strumenti di copertura che rivelano quanto meno un’approssimativa gestione amministrativa, si è trovata in sostanza svuotata per effetto delle domande di rimborso dei correntisti, a nulla essendo valsa la corsa ad azioni riparatorie annunciate solo l’8 marzo (vendita di 21 miliardi di dollari di obbligazioni, aumento di capitale di 2,5 miliardi per soddisfare la clientela e reinvestimento in titoli di durata più breve, in questo momento più remunerativi).
A tale situazione, la Fed ha dato una risposta eccezionale, garantendo tutti i depositi per frenare la corsa affannata agli sportelli e aprendo linee di credito straordinarie per oltre 25 miliardi di dollari, per fornire liquidità al sistema, che nel frattempo ha visto altre banche locali coinvolte nello stesso rischio. In Europa abbiamo assistito alla vicenda di Credit Suisse, fallita per effetto di scandali finanziari e sanzioni di vario genere, segnali di una profonda e prolungata mala gestio: non diversamente da oltreoceano, la Banca centrale svizzera è subito corsa ai ripari, forzando l’acquisizione da parte di UBS e fornendo liquidità all’istituto fino a 50 miliardi di franchi.
In entrambi i casi, le banche centrali, forse memori della crisi di Lehman Brothers del 2008, hanno agito con tempestività per circoscrivere l’area di contagio ai pochi casi interessati, benché non sia ancora del tutto chiaro se l’incendio sia stato spento: tale incertezza è espressa nell’atteggiamento di cautela da parte della Fed, per valutare, dopo il probabile rialzo di maggio, gli effetti della restrizione monetaria e della crisi bancaria sulle condizioni creditizie.
In sintesi, si può rilevare una forte dissonanza al vertice politico-monetario, per cui, da un lato, si guarda con preoccupazione ai dati su un mercato del lavoro ancora robusto, dall’altro non si bada a spese per salvaguardare comunque un settore ad alto rischio di contagio, contribuendo ad allargare la disuguaglianza sociale, così che le colpe di alcuni ricadono sempre su tutti gli altri!
Anche qui, disponiamo di un’immagine efficace a rappresentare quanto descritto, meno drammatica dei dipendenti con gli scatoloni in strada dopo il crack Lehman, ma molto più brutta, cioè quella dell’ex amministratore delegato di Svb (Greg Becker) nella sua villa alle Hawaii, pochi giorni dopo il fallimento della banca che doveva dirigere e dopo la vendita – secondo fonti di stampa – di 3,5 milioni di dollari di azioni della sua Banca, pochi giorni prima del fallimento; o cosa dire della disarmata ammissione dell’ex Ceo di Credit Suisse in merito a significative carenze nei controlli, all’interno di una banca sistemica?
Rientrata la crisi bancaria, il mondo intero ha tirato finalmente un sospiro di sollievo; ma come è possibile ciò di fronte a un sistema così malato, dove al mito della “impunibilità” di alcuni si sacrificano intere frange sociali? In fondo è la stessa logica bellica a cui assistiamo da oltre un anno e che ormai giunge pressoché a non fare più notizia.
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