C’era attesa la scorsa settimana (conclusasi in Europa con un brusco calo delle azioni di Deutsche Bank) per le decisioni della Federal Reserve dopo la crisi di SVB, Signature Bank e First Republic Bank.

E, come spiega Domenico Lombardieconomista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, ora Direttore del Policy Observatory della Luiss, «la banca centrale americana ha voluto continuare a privilegiare l’obiettivo anti-inflazionistico riservandosi altri strumenti, propri del prestatore di ultima istanza, per garantire la stabilità finanziaria».



In effetti, c’è stato sì un aumento dei tassi, ma solo di un quarto di punto. E per quest’anno si ipotizza solo un altro rialzo della stessa entità.

Sì e non dobbiamo dimenticare che all’inizio di marzo il Presidente Powell aveva veicolato ai mercati l’intenzione di alzare, invece, i tassi di mezzo punto. Questo cambiamento rispecchia le recenti vicende legate alla crisi bancaria americana, che hanno inciso anche sull’entità del tasso terminale. In precedenza stimato oltre il 5,5%, ora si ritiene dovrebbe assestarsi tra il 5% e il 5,25%. La Fed mostra, quindi, di continuare ad avere una postura pragmatica e ritagliarsi il più ampio margine di manovra.



Che ripercussioni potranno avere le crisi bancarie di queste settimane?

Partirei da una premessa molto importante: il sistema bancario si fonda sulla fiducia; quando essa viene meno, per una qualsiasi ragione anche non direttamente attribuibile alla banca in questione, anche gli istituti che appaiono estremamente solidi possono trovarsi in una situazione di stress e difficoltà. Inoltre, la digitalizzazione e i social media, dove le informazioni vengono veicolate istantaneamente, hanno avuto un forte impatto sulla base dei depositi bancari nelle recenti crisi bancarie rendendola intrinsecamente mobile. Questo è un aspetto che non esisteva fino a qualche anno fa e che potenzialmente accresce l’instabilità del sistema bancario. Venendo alla sua domanda, quello che è successo ha delle ripercussioni importanti, delle ramificazioni internazionali non trascurabili, non tanto e non solo per possibili effetti di contagio, come già si sono verificati in Svizzera, ma per quel che riguarda l’impianto regolamentare che è stato costruito dalla crisi del 2008 in poi. In buona sostanza, quell’impianto reggeva su una serie di prescrizioni e criteri, anche molto dettagliati, che tuttavia non sono riusciti a evitare la crisi della SVB. Quest’ultima si è verificata per la ragione più semplice per cui una banca può andare in default: un’eccessiva asimmetria tra le scadenze del passivo, tipicamente a vista, e quelle dell’attivo. E non è tutto.



Cosa intende dire?

Che a seguito di questa crisi le autorità americane hanno esteso la garanzia sui depositi delle banche interessate oltre il limite di 250.000 dollari previgente e, di fatto, questa assicurazione è stata estesa a tutti i depositi bancari statunitensi, il cui ammontare supera i 17 trilioni di dollari. Ciò è avvenuto non in via formale, ma attraverso le dichiarazioni di Janet Yellen, che all’American Bankers Association ha spiegato che l’Amministrazione è pronta a estendere la garanzia sui depositi a qualunque banca si trovasse in difficoltà. Il segretario al Tesoro ha, quindi, creato le aspettative per un’assicurazione illimitata e indiscriminata su tutti i depositi. Questo va nella direzione opposta rispetto a quello che era l’impianto regolatorio esistente fino all’altro giorno che tendeva a introdurre un meccanismo forte di disciplina di mercato. Di fatto, in pochi giorni tutto il lavoro degli ultimi 15 anni si è dissolto e le ramificazioni internazionali che sicuramente si manifesteranno sono ancora tutte da valutare. Va aggiunta, poi, un’altra cosa ancora rispetto all’estensione della garanzia sui depositi bancaria Usa.

Quale?

Questa implicita garanzia universale su tutti i depositi falsa il terreno di gioco competitivo tra il sistema bancario americano e quello dell’Eurozona, che presenta una disciplina sull’assicurazione dei depositi particolarmente rigorosa e limitata a 100.000 euro. Questo lo possiamo interpretare come un ulteriore elemento protezionistico, che si affianca a misure precedenti poste in essere da Washington e sottolineano un approccio sempre più marcatamente interventista dello Stato nell’economia.

C’è il rischio di una crisi bancaria anche nell’Eurozona?

Finora l’Eurozona è stata meno interessata dalle tensioni che si sono registrate sui mercati bancari americani e svizzeri, anche se la scorsa settimana si sono registrate delleturbolenze su Deutsche Bank. Questo riflette un approccio alla vigilanza più rigoroso, sebbene, come evidenziato poco fa, se c’è una crisi bancaria il fenomeno di panico, di crisi di fiducia, può estendersi aldilà di una valutazione puramente razionale dei fondamentali. Dunque, è improbabile che nell’Eurozona vi sia una crisi bancaria dovuta ai motivi per cui si è originata negli Stati Uniti, anche si vi può essere contagio. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che le banche italiane hanno classati nei propri portafogli significativi ammontari di titoli del debito pubblico e, quindi, una crisi di fiducia che si originasse per contagio potrebbe colpire l’Eurozona e le sue economie più fragili. Quello che a mio avviso dobbiamo valutare con attenzione è la disciplina dell’Eurozona sull’assicurazione dei depositi.

Da che punto di vista?

Gli Stati Uniti sono fulmineamente intervenuti per assicurare tutti i depositi delle istituzioni bancarie coinvolte nella crisi nel tentativo di stabilizzare le aspettative degli operatori e prevenire una crisi sistemica. Viene da chiedersi se nell’Eurozona, che è un’unione di Paesi e non una federazione, un intervento del genere si possa concretizzare con la stessa velocità.

La Bce a metà marzo ha alzato i tassi di mezzo punto. Cosa farà, a suo avviso, nei prossimi mesi?

Credo che la Bce non avesse scelta: la Presidente Lagarde aveva annunciato a più riprese che ci sarebbe stato un rialzo dei tassi di mezzo punto e si era in qualche modo legata le mani. Nei prossimi mesi ci sarà una maggiore attenzione sulla dinamica del sistema bancario e le colombe all’interno del Consiglio direttivo guadagneranno trazione proprio perché crescerà la pressione non tanto per eliminare l’incremento dei tassi, quanto per mitigarne l’entità e probabilmente il punto di arrivo, così com’è accaduto per la Fed.

Questo anche perché se, come è stato ripetuto, la Bce vuole prendere le decisioni sulla base dei dati, molto probabilmente dovrà anche rivedere le previsioni che sono state formulate prima della crisi di SVB…

La crisi bancaria negli Usa e in Svizzera introduce un ulteriore elemento di incertezza. Quando quest’ultima aumenta gli investimenti rallentano e con essi anche la crescita americana. Come ha riconosciuto lo stesso Powell, è prevedibile che vi sarà una restrizione del credito che agirà da zavorra sulla crescita. Dovremo vedere in che misura la crisi bancaria inciderà sulle politiche e sulle prassi creditizie del nostro sistema e che effetti questo avrà sull’economia reale.

Un rischio per l’Italia è che il rialzo dei tassi faccia svalutare i titoli di stato detenuti dalle banche mettendole, quindi, in difficoltà?

Quello che noi abbiamo visto negli Stati Uniti è che un rialzo molto sostenuto dei tassi implica dei rischi. Nel caso dell’Eurozona il rischio è che in un’economia nel complesso a bassa crescita, in particolare in Italia, il rialzo dei tassi si proietti negativamente sulla sostenibilità del debito pubblico e che queste valutazioni si estendano a quelle banche che lo detengono. A oggi, occorre chiarire, questa prospettiva non c’è, ma bisogna esserne consapevoli proprio per poterla prevenire, gestire e, se del caso, mitigare. Bisogna essere vigili rispetto a questo rischio concreto e con maggiore aggressività impostare una politica di crescita, soprattutto rimuovendo al più presto e con fermezza le cause dei ritardi del Pnrr, i quali implicano una minore capacità di crescita economica. Oltre a questo, è fondamentale continuare a mantenere una postura nella politica fiscale incentrata sulla massima responsabilità.

Servono, a suo avviso, anche degli interventi politici europei, degli ulteriori passi in avanti sull’unione bancaria?

Nel caso di un’incipiente crisi bancaria è molto importante intervenire in modo fulmineo per stabilizzare le aspettative dei depositanti e dei mercati, sia a livello italiano che dell’Eurozona. Il processo decisionale europeo, essendo condiviso fra numerosi Paesi, strutturalmente non presenta questa caratteristica di immediatezza. Inoltre, l’Italia sconta un’ulteriore fragilità legata alla sua ridotta capacità fiscale.

Un po’ come abbiamo visto coi sostegni contro il caro-energia, ci sono Paesi che possono varare mega-piani, come la Germania, e altri che non possono aumentare troppo il deficit…

Esattamente. Per quanto riguarda l’unione bancaria, finora è stata interpretata come condivisione di un impianto regolatorio comune implementato da una vigilanza centralizzata. Per consolidare ulteriormente questo approccio dovremmo anche sviluppare una capacità altrettanto sofisticata di intervento per poter credibilmente stabilizzare le aspettative in caso di un’incipiente crisi bancaria. Su questo fronte c’è, però, ancora molto lavoro da fare. Essendo, tuttavia, consapevoli di una cosa.

Quale?

L’unione bancaria non è in grado, da sola, di risolvere il problema legato alla differente garanzia sui depositi che vige negli Stati e nell’Eurozona di cui abbiamo parlato poc’anzi. Se non si interviene su questo “cuneo” così ampio c’è il rischio che i grossi depositanti siano incentivati, a parità di altre condizioni, a spostare la liquidità da una sponda all’altra dell’Atlantico in forza di un’implicita, illimitata garanzia sui loro depositi a prescindere dall’entità.

(Lorenzo Torrisi)

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