Poco meno di due mesi è il tempo trascorso dall’ultima crisi bancaria, poi, tramutatasi in fallimento. Negli Stati Uniti, dopo Silicon Valley Bank e Signature Bank questa settimana è toccato alla First Republic Bank che, salvata dal colosso americano JPMorgan Chase ha, però, evitato il peggio. Senza trascurare le vicende della Silvergate Bank, anch’essa oggetto di crisi, possiamo serenamente affermare che il sistema bancario a stelle e strisce non appare sufficientemente resiliente come tanto decantato nella varie e molte sedi istituzionali. Il mercato lo sa e ne è pienamente consapevole. Infatti, non è un caso come, all’indomani del “salvataggio” da parte JPMorgan Chase, i listini azionari abbiano replicato pesantemente in territorio negativo. Un’ulteriore attestazione di questo stato di fragilità può essere riscontrato dalle recenti dinamiche dei prezzi relativi all’indice settoriale S&P 500 Financials che, nuovamente, si ripropone in prossimità dei minimi dello scorso marzo con un saldo negativo da inizio anno di circa otto punti percentuali dopo l’oltre -12% del 2022.



Facile, dopo queste evidenze, accostare la recente attualità alla storica crisi del 2008, ma, sostanzialmente, quest’ultima non può essere minimamente presa come oggetto di possibile parallelismo. Di fatto, allora, “il sistema” era inevitabilmente giunto all’ormai celebre espressione too big to fail e, pertanto, si era innescato un moto obbligato nell’agire da parte delle istituzioni e dei singoli istituti bancari chiamati in soccorso all’insegna di un apparente bene comune. Successivamente, a distanza di anni, verificando nei numeri questo atto di presunta generosità nel “salvare il sistema” si è potuto constatare, invece, come la ragion d’essere alla base di ciascun “salvataggio” celava la più tradizionale e scontata delle motivazioni. Anziché incarnare l’indole di salvatori della cosiddetta patria si è semplicemente confermata l’unica identità di quello che effettivamente si è sempre stati: investitori o, addirittura, speculatori caratterizzati dalla ricerca di un gain da riportare in quell’ultima riga presente a ciascun prospetto d’offerta. Null’altro.



Anche l’operazione condotta da JP Morgan Chase non nasconde quest’ultimo, essenziale, tratto distintivo: si legge, infatti, come i guadagni a seguito del “salvataggio” si attestino a oltre 500 milioni di dollari annuali. Visto il contesto e la cifra in sé in dote alla primaria banca d’affari Usa giunge naturale il ricordo della voce di Bud Fox nel celebre film Wall Street che, al suo mentore Gordon Gekko, rivolge un: “Bazzecole Gordon”. Sì, in effetti, un ricavo di 500 milioni di dollari per JPM rappresenta una inezia, una bazzecola, rispetto agli oltre 37 miliardi conseguiti nel 2022. Ma, come ovvio, meglio averne cinquecento in più che cinquecento in meno.



Pertanto, nel 2008 il rischio del sistema poggiava su fondamenta fragile riconducili a colossi, i cosiddetti giganti che, vacillando, incutevano timore al vicino di casa. Oggi, con tutto il rispetto, accostare questa ritrovata parvenza di giganti sistemici alle banche regionali Usa appare una associazione fin troppo azzardata e a tratti potenzialmente pretestuosa. Paradossalmente, estremizzandone volutamente il concetto, si vorrebbe far credere al pubblico come la forza (nel nostro caso identitaria di una debolezza finanziaria) dei molti lillipuziani, ossia le banche regionali americane, possa impattare sulla mastodonticità di Gulliver, ovvero l’intero sistema. Pur consapevoli del più classico, inflazionato e potenziale “effetto domino”, oggi, immaginare una tale onda d’urto desta qualche dubbio sull’effettiva realizzazione: ovviamente nei fatti e non nelle parole dove tutto è possibile anche se poco plausibile.

Guardando alla storia e al suo (sempre) ricordo, le vicende del 2008 lasciano certamente qualche insegnamento che, obbligatoriamente, non deve essere trascurato. Quindici anni fa, si fece tutto il possibile per arginare l’imprevedibile e, sempre rimanendo ai soli fatti, l’introduzione del Troubled Asset Relief Program (Tarp) prima per il sistema bancario, poi, per quello assicurativo, ha scongiurato ed evitato ulteriori strascichi per l’intero sistema. Ovvio che, a seguito delle ripercussioni post-Lehman, l’economia subì un duro colpo, ma è comunque innegabile come i regolatori siano intervenuti: forse in ritardo, ma l’intervento ci fu.

Tornando ai giorni nostri, e avendo ben chiaro il passato, di ulteriori presunte o ennesime crisi, potremmo verosimilmente leggerne con il trascorrere del tempo. Come detto, considerarli “salvataggi”, appare una forzatura. Parallelamente, però, è pur vero che, l’introduzione (anticipata) di una nuova forma di “Tarp versione 2.0”, al momento, sia una vera utopia.

Al mercato e ai suoi principali attori spetta il compito di poter traghettare l’attuale criticità del sistema bancario Usa, mentre ai regolatori la funzione di poter arginare eventuali difficoltà. In tutto questo c’è una sola certezza: all’immediatezza dei primi è contrapposta la tardiva azione dei secondi. Mai l’opposto. E questo il mercato lo sa.

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