La crisi dell’economia cinese, legata soprattutto al settore immobiliare, mette in allarme i mercati, ma pone anche sulla graticola Xi Jinping, secondo i rumors oggetto di qualche critica interna da parte del Comitato centrale del Partito comunista. Per ora non rischierebbe la sua posizione, ma è chiamato a decidere quale indirizzo dare alla politica economica del Paese.
La scelta, spiega Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter è tra il riconoscimento della necessità di mantenere relazioni con gli Usa e il mondo esterno e la tendenza, invece, a una sorta di “autarchia” che punti a sganciarsi dall’economia internazionale. Due visioni che hanno entrambe dei sostenitori tra i consiglieri economici del presidente cinese.
La Cina ha ridotto notevolmente i finanziamenti in Africa, passati da 28 miliardi di dollari nel 2016 a meno di un miliardo. Un segnale, tra gli altri, che la sua potenza economica sta scemando?
Gli investimenti in Africa i cinesi li hanno fatti in passato e hanno anche pagato i loro bravi dividendi politici. Non è che sono obbligati a fare nuovi investimenti. Non mi pare che sia un indicatore fondamentale di cui tenere conto, anche se si inserisce in un quadro di dati economici generali relativi alla crescita della Cina che sono i peggiori da parecchi anni a questa parte. L’economia cinese non gode di buona salute, ma Pechino non è alla bancarotta, ha dei problemi cui non è abituata, ma non è un Paese allo sbando. Certo, in questo momento non ha più ragione di fare del trionfalismo economico come ha fatto per anni.
Le province cinesi, però, anche in conseguenza della crisi immobiliare, hanno accumulato un grosso debito. Quanto può incidere questo elemento sulle casse dello Stato e dell’economia in generale?
Tutto parte dalla bolla immobiliare, perché le amministrazioni provinciali erano più o meno legate a grandi società immobiliari per programmi di case popolari: a catena i problemi di Evergrande e di altri gruppi hanno un po’ coinvolto tutti. Poi si può mettere in prigione il presidente di Evergrande, ma così non si risolvono i problemi. Sicuramente c’è un problema locale a causa della bolla immobiliare che si riverbera sulla finanza nazionale. Suggerisco comunque cautela: quando leggo, da qualche parte, che la Cina è alla bancarotta e che questo potrebbe portare alla caduta del regime, ricordo che stiamo parlando di un Paese che ha ancora grandi riserve, che sicuramente non vede più il futuro economico con l’ottimismo di prima, ma è un Paese con molte risorse.
Xi Jinping alla luce di questa crisi rischia qualcosa dal punto di vista politico?
Ha avuto diversi problemi a partire dalla gestione del Covid e dall’affermazione che lo zero Covid sarebbe rimasto per sempre, poi rimangiata rapidamente dopo le proteste. È criticato per avere creduto a Putin che gli assicurava che la guerra in Ucraina sarebbe stata di breve durata, mentre comunque finisca certamente di breve durata non è. Certamente subisce delle critiche interne. Se siano in grado di travolgerlo e di farlo sostituire con qualcun altro, nei regimi totalitari è sempre difficile da dire: c’è una grande opacità rispetto a quello che succede. Si dice che ci siano state critiche esplicite all’interno del Comitato centrale, ma sono dei si dice che, nel regime cinese come in quello sovietico di un tempo o quello nordcoreano di oggi, sono molto difficili da confermare. Né si vede in questo momento, ma anche qui bisogna fare i conti con l’opacità del sistema, un uomo forte che si possa candidare alla successione. Se dovessi scommettere direi che in questo momento Xi Jinping non rischia, ma le scommesse in questo tipo di Paesi sono difficili.
Al di là delle critiche a livello politico, anche interne al Partito, c’è un malcontento popolare?
Il maggiore malcontento c’è stato prima. Non ho mai percepito un malcontento così forte come all’epoca del lockdown per il Covid. Quello ha dato fastidio a tutti, anche a persone che non hanno nessuna aspirazione, come hanno certi studenti e intellettuali, ad avere il multipartitismo e delle libere elezioni. Quello è un problema che è percepito da una minoranza, mentre il problema di non potere uscire di casa e di dovere andare a fare la corsa per prendere il cibo lasciato sui marciapiedi dalla polizia era di tutti. Secondo me si è trattato di una situazione peggiore di Tienanmen. È stata la maggiore ondata di malcontento in Cina dai tempi della rivoluzione culturale e ha costretto Xi Jinping a uno spettacolare voltafaccia: dopo aver dichiarato pochi giorni prima che la politica dello zero Covid sarebbe stata per sempre, si è rimangiato tutto dicendo che il Covid era finito e non era più pericoloso, probabilmente causando un milione di morti con questa rapidissima riapertura. Da un certo punto di vista, quindi, il peggio per lui è passato.
Questo debito delle province potrebbe in qualche modo indurre lo Stato cinese a un atteggiamento meno dinamico e quindi influire sull’andamento dell’economia mondiale?
Per ora tutto si scarica all’interno del sistema cinese. Ci sono comunque due scuole di pensiero: la prima, che ha dalla sua qualche segnale di distensione non politica o militare ma commerciale nei confronti degli Stati Uniti, sostiene che questa crisi porterà Xi Jinping a rendersi conto che del mondo esterno, e in particolare dell’economia americana, ha bisogno. E quindi a moderare i toni. L’altra tesi è che per evitare che le crisi interne si scarichino all’esterno, con conseguenze politiche potenzialmente dannose, Xi Jinping intensifichi la politica di decoupling, di sganciamento dell’economia cinese dall’economia internazionale. Ci sono già segnali anche di questa tendenza, ad esempio il tentativo di farsi i semiconduttori in casa.
Si realizzerebbe così una sorta di autarchia cinese?
Sì. Xi Jinping in teoria sa tutto e comanda tutto ma non è evidentemente esperto di tutto; l’impressione che ho è che tra gli economisti che lo consigliano ci siano tutt’e due le linee. Non è chiaro ancora quale sia quella vincente.
(Paolo Rossetti)
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