I livelli di inflazione raggiunti in Europa e, anche, negli Usa hanno riportato al centro del dibattito la questione salariale. A dire il vero, nel nostro Paese, la dolente piaga dei salari è cosa nota ben prima della scorsa settimana, quando l’Ocse ha diffuso una rilevazione comparata in cui emergono dati inequivocabili. Negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese in cui i salari annuali medi sono diminuiti, precisamente del 2,9%.



Il confronto con le altre economie avanzate, come la nostra, è impietoso: in particolare, in Germania i salari sono cresciuti del 33%, in Francia del 31%; se poi guardiamo anche ad altri Paesi europei, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%. Per quanto riguarda gli Stati scandinavi, questi registrano il +63% della Svezia, il +39% della Danimarca e il +32% della Finlandia.



C’è chi in questi giorni non ha mancato di far notare che il problema della questione salariale è la debole produttività, ovvero il costo del lavoro in rapporto all’unità di prodotto (Clup): effettivamente, se andiamo a guardare i dati dal 2000 al 2017 (Eurostat), nel settore manifatturiero il Clup italiano è cresciuto del 34,7% rispetto al 2,3% della Francia e a una diminuzione dello 0,2% della Germania e del 5,4% della Gran Bretagna.

Vanno però dette alcune cose. Intanto, il costo orario del lavoro in Italia (29,3euro) è piuttosto in linea con la media europea (32,8 euro nell’Eurozona, 29,1 nell’Ue); in Germania è di 37,2 euro, in Francia di 37,9, in Olanda di 38,3, in Belgio 41,6, in Spagna 22,9. È singolare che da questo costo del lavoro del tutto ordinario si arrivi a una situazione paradossale di salari più critici dell’intera area Ocse. In secondo luogo, tra il 1995 e il 2020 la produttività in Italia è cresciuta di 12 punti. In Germania siamo a circa +45, in Francia +35 e nell’Unione quasi a +40. E questo è certamente un problema rispetto alle retribuzioni perché, in tutto il mondo avanzato, queste crescono in rapporto alla produzione di ricchezza che è determinata, anche, dalla crescita della produttività. I salari non sono, infatti, una variabile indipendente dall’andamento economico.



C’è qualcosa, tuttavia, che in Italia si equivoca. Al di là del fatto che il cuneo fiscale è molto alto (46,5%) – così come in Belgio (52,6%), Germania (48,1%), Austria (47,8%) e Francia (47%) dove però, come abbiamo visto, anche le retribuzioni sono più alte – nel nostro Paese l’argomento della produttività viene richiamato dalle imprese a difesa del loro interesse: in buona sostanza, i salari possono crescere solo se cresce la produttività.

Eccoci al punto e all’equivoco di fondo: la produttività cresce soprattutto in presenza di investimenti, di innovazioni che hanno a che fare con l’organizzazione del lavoro, con interventi infrastrutturali che permettono all’impresa di efficientare il suo processo produttivo, con semplificazioni burocratiche, ecc. Senza questi fattori, la produttività non cresce. Poi, certamente, anche il lavoro può dare il suo contributo. In questo senso, resta esemplare l’accordo Fiat del 2010 quando, a fronte di accordi che riducevano pesantemente scioperi e assenteismo e ottimizzavano i tempi di lavoro, la produttività cresceva in modo forte tanto da generare premialità importanti. Tutto questo però trovava la sua giusta spinta dagli investimenti del Piano Fabbrica Italia, senza il quale non vi sarebbe stata nessuna crescita della produttività e, quindi, dei salari.

Le dimensioni del sistema produttivo italiano – il 95,2% delle nostre imprese ha meno di 10 addetti/e – sono tali per cui è complicato pensare che siano queste da sole a risolvere il problema salariale. Ciò produrrebbe pesanti contraccolpi. Vi sono settori, inoltre, in cui il costo del lavoro raggiunge in media il 55/60% (in particolare: logistica, tessile e confezionamento). Oggi, l’unica strada percorribile è la riduzione del cuneo fiscale, intervento che – quantomeno in questa fase – si potrebbe limitare alla piccola impresa dove, peraltro, difficilmente si pagano salari di produttività.

Dopodiché, di questi tempi, consideriamo anche che Germania e Spagna hanno alzato il livello dei salari minimi. È necessario che anche in Italia si intervenga sul lavoro povero e sul dumping dei contratti stabilendo dei minimi: ciò può essere fatto non soltanto col salario minimo legale, ma anche dando efficacia erga omnes alla parte retributiva dei contratti più rappresentativi.

Il Pnrr è, infine, la grande occasione per la crescita della produttività. Il problema vero degli ultimi 30 anni in Italia è la pochezza degli investimenti. Oggi possiamo contare su oltre 200 miliardi per la modernizzazione del Paese. Cerchiamo di non perderla perché gli effetti sarebbero disastrosi.

Twitter: @sabella_oikos

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